Chantal Lengua

La casa del padre

John Donovan era il Robert Downey Jr. del Penitenziario Southport non solo perché gli assomigliava vagamente ma perché ostentava quel carisma tipico di quegli attori che Hollywood si teneva più stretta di un cane con il suo osso. Era finito dentro per aggressione di secondo grado contro tre agenti di polizia e questo gli aveva garantito stima e simpatia da parte dei suoi nuovi condomini nonostante non fosse di mente veloce: aveva completato a stento la scuola dell’obbligo e poi lavorato in una fabbrica di fibra ottica così nel nulla che in quei campi si sarebbe potuta scambiare facilmente una capra per una donna, o almeno così dicevano.

Forse per il suo crimine, forse perché il mondo girava già storto, Donovan intratteneva una fitta corrispondenza con ammiratrici esterne che, pur non conoscendolo, trovavano eccitante inviargli foto che lui provvedeva ad appendere nel suo lato di cella. Periodicamente i secondini gliele facevano togliere e lo battevano, ma poi gliele facevano riattaccare perché c’era una gerarchia, lì dentro, che anche loro dovevano rispettare e che non era definita dalla divisa.

Era una mattina di aprile quando Donovan ricevette una lettera nuova, in carta ruvida, che conteneva soltanto una riga in corsivo.

So cosa hai fatto. Tuo padre sarebbe fiero di te.

Gregor Donovan aveva conosciuto meglio i fondi delle bottiglie che gli occhi di suo figlio. Il rapporto che John aveva cercato negli anni, l’approvazione, la stima, erano andati scemando quando si era accorto che aveva sempre preferito un altro bambino a lui, figlio di una donna che talvolta bussava alla loro porta e che la madre chiamava La Puttana. Il padre portava l’altro bimbo a giocare a baseball e gli diceva che lui sì che avrebbe studiato, lui sì che si sarebbe fatto strada nel mondo. John invece sarebbe rimasto indietro, a John le porte sarebbero rimaste chiuse.

Sul retro della busta era riportato il nome del mittente – Larry Swain – e l’indirizzo. Nient’altro. Donovan la cestinò con un certo fastidio, ma quella frase gli bucò le tempie nei sogni e negli incubi, obbligandolo dopo una settimana a imbustare una risposta molto breve, per metà domande e per metà insulti.

Quella di Larry Swain non si fece attendere e ben presto le lettere delle donne passarono in secondo piano. L’uomo si presentava come un comune cittadino, né giornalista né avvocato, interessato alla vita di Donovan e ai diversi crimini che aveva commesso nei suoi trentadue anni: furti, violazioni di domicilio, molestie sessuali, resistenza all’arresto. In particolare, aveva letto di lui sul giornale e si era rispecchiato in quell’ultima esperienza che lo aveva portato in carcere, esperienza che lui stesso aveva avuto con i porci in divisa.

Simpatizzava per lui, per la sua ribellione al regime, per la sopravvivenza in quella sporca prigione di contea, per l’infanzia vissuta in campagna che lo accomunava a Larry stesso, cresciuto a Ellenville, nella contea di Ulster. Gli ricordava il figlio che non aveva mai avuto; a lui erano toccate solo femmine, ormai fuori casa.

Divennero amici, nei mesi, confidenti di parole vergate solo su carta.

Nello stato di New York l’aggressione di secondo grado era punibile con una pena da due a sette anni di reclusione e Donovan uscì a quattro per buona condotta. Il giorno in cui le fauci metalliche del Penitenziario Southport si aprirono sull’asfalto bruciante di agosto, una berlina Ford con una botta sul paraurti lo attendeva al limitare della strada. Appoggiato a essa, un uomo di mezz’età in camicia da boscaiolo fumava un sigaro. Swain vide la grossa figura di John avvicinarsi e allungò un braccio per stringergli la mano, ma questi lo abbracciò come non aveva mai potuto fare con un uomo dell’età di suo padre. Swain ricambiò battendogli l’avambraccio sulla schiena, buttò in terra il mozzicone di sigaro e mise in moto.

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La scelta più comoda per John sarebbe stata tornare nella casa di famiglia da quei genitori che non si erano mai fatti cinquanta minuti di macchina per andare a trovarlo, ma avrebbe preferito scolarsi una bottiglia di cherosene, così accolse di buon grado la proposta, fatta davanti a una di scotch, di fermarsi nella casa di Larry fino a che non avesse trovato una vera sistemazione.

Il cottage si trovava al limitare del Parco Statale di Minnewaska, tra aceri, laghi e betulle, ma i primi giorni di libertà John se li passò in salotto, affondato nella poltrona di pelle con un barattolo di yogurt in mano, ancora restio ad affrontare i grandi spazi della vita. Ammirava le due teste di cervo appese alle pareti sopra i fucili, il tappeto di pelle di mucca, il televisore che lo aggiornava su un mondo che, ebbene sì, era andato avanti senza di lui. Fu Larry a trascinarselo quasi di peso nella foresta, smontando una mezz’ora prima dal negozio di alimentari in cui lavorava. Mentre passeggiavano, John lo vedeva sputare spesso in terra e inveire contro le varie cose che gli si paravano davanti, rocce, radici, pozze. Ma aveva le mani grosse e il sorriso ampio, soprattutto quando lo chiamava “figliolo”, e pareva essere genuinamente interessato ad ascoltarlo quando parlava. Spesso, poi, gli raccontava delle furbate che aveva fatto alla sua età, alcune che gli erano costate brevi soggiorni in prigione. A vederlo non lo avresti detto: era un uomo magro, dalla testa lucida e la mascella secca, e per certi versi goffo, pure nella sua stessa casa. Spesso si dimenticava dove aveva lasciato le cose, ed era John a riportargliele.

Nel giro di poche settimane avevano iniziato a delinearsi piccole abitudini che li facevano muovere come ingranaggi di un meccanismo ben oliato: chi faceva la spesa, chi lavava i piatti, chi portava la spazzatura, chi cucinava la cena. Di sera si raccoglievano spesso davanti alla TV, John sul divano e Larry sulla poltrona, a commentare quiz di cui non azzeccavano mai una risposta. A volte sul satellitare passavano le serie sui crimini, NCIS, CSI, Criminal Minds, che Larry non pareva prendere troppo in considerazione ma che accendevano la curiosità di John: nonostante si perdesse nelle trame e nei dettagli di balistica forense, c’era qualcosa, in quelle storie, nelle ossa rotte, nei rapimenti, nel sangue, che gli accelerava il battito. Arrivò a desiderare l’arrivo della sera solo per vedere un episodio, e a cercarli anche di giorno quando Larry era al negozio. Con il passare delle ore passate ad abbronzarsi le retine di fronte allo schermo, iniziò a imparare i termini complessi e ad affinare l’anticipazione dei colpi di scena.

«Guarda quello. È un coglione. Lo beccheranno perché è tornato proprio lì da quelli della Scientifica.»

«Stai imparando molte cose, John» fece l’altro, con la destra stretta a una birra ghiacciata e la sinistra appoggiata al bracciolo consumato della poltrona. «Mi chiedo se ci potrebbero tornare utili.»

«A cosa stai pensando?»

«A niente, a niente.» Si concesse un sorso di birra, lentamente, lasciando quelle parole aleggiare nell’aria. Uno sguardo concentrato a inseguire un filo interno alla sua mente, però, tradiva la leggerezza di quelle parole. «O almeno, non è ancora il momento»

«Ma il momento per cosa?»

Larry fece un gesto nell’aria come ad allontanare una mosca, accompagnato da una smorfia che si arcuò in un sorriso quasi paterno.

«Ma no, John, lascia perdere. Non sei ancora pronto. Vedremo tra qualche settimana.»

Quando Larry chiudeva una conversazione era impossibile non accorgersene, e soprattutto, tentare di riaprirla. Così John, senza aver bene compreso di cosa si fosse appena parlato, da quella sera cominciò a comportarsi come un figlio e un inquilino modello, nel tentativo di compiacere quell’uomo che non era suo padre e di prepararsi a quel qualcosa che non era stato spiegato. Si alzava la mattina presto e cominciava la giornata con piegamenti sulle gambe e sulle braccia, preparava toast e uova a lui e a Larry prima che andasse al lavoro, nuotava nel lago e studiava le serie tv sul crimine e i documentari sui grandi killer, Bundy, Dahmer, Manson, fremendo all’idea di cosa gli avrebbe proposto Larry. Ma i giorni passavano, portandosi solo più dubbi e aspettativa. Una mattina, figlia di una burrascosa notte di sudore, John si piazzò davanti a Larry sbarrandogli la strada per la porta.

«Sono pronto.»

«Pronto per cosa?»

«Per il tuo grande piano.»

«Ma quale grande piano?»

«Quello che dicevi l’altra volta, quella… quella volta davanti a CSI: New York.»

Larry si guardò l’orologio.

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«Sei stato bravo, hai messo su muscoli e introdotto un po’ di disciplina. L’ho notato. Ne parleremo stasera.»

John titubò per un momento, come se lasciarlo uscire avesse potuto significare vederlo scomparire per sempre, ma si mise da parte e lo fece passare. Quel giorno fu uno dei più lunghi della sua vita; lo passò con l’apprensione di un ragazzino prima dell’esame di fine anno. Larry rincasò presto, verso le cinque, dicendogli di prepararsi per uscire. John era pronto dalle otto del mattino.

Salirono sul pick-up e scesero fino a Rosendale, oltrepassando la farmacia e gli alberghi semi-vuoti a ogni stagione dell’anno, che John si chiedeva come facessero a dar da campare a chi ci lavorava. Larry parcheggiò in un ampio spiazzo ghiaioso davanti a un diner ed entrò, accomodandosi sui sedili imbottiti in pelle sintetica e aprendo il menù come se fosse una cartina autostradale. John lo seguiva come un cane; non avevano ancora parlato.

Fu all’avvicinarsi della cameriera, una ragazza dal viso tempestato di lentiggini, che Larry rivolse a John una lunga occhiata da rettile. Ordinò un mac and cheese e una birra, e John, che nell’apprensione non aveva neanche dato uno sguardo al menu, chiese lo stesso. La ragazza, Cindy dalla targhetta sul petto, annotò il tutto e rispose con un largo sorriso. Era carina, ma non di una bellezza che rimaneva impressa: aveva i capelli troppo corti per i gusti di John e il viso stretto, da topolino. Ma forse Larry la pensava diversamente.

«Allora?» lo interrogò.

«Non qui.»

Il piano fu chiaro a casa, quando, sotto il vociare della televisione, Larry gli svelò che quella ragazza, di una ventina d’anni più giovane di lui, era la sua ossessione da quando si era trasferito lì, nella periferia di Rosendale. Ma quello che pensava era un lavoro da due uomini, e non era facile trovare un complice per quel tipo di cose.

«È per questo che hai scritto a me, in prigione?» Gli occhi di John brillavano come specchi acquosi.

«Sí, sapevo che in te avrei trovato l’uomo giusto.»

John dovette stringere il pugno e portarselo davanti al viso, distogliendo lo sguardo per non piangere. Si trovava davanti al padre che non aveva mai avuto. Se fosse stato Larry, a crescerlo, non avrebbe trascorso quella vita mediocre, ma sarebbe stato destinato a grandi cose, sì, alle grandi cose dei documentari, di Ted Bundy, di Dennis Rader.

«Ma anche gli uomini forti come te possono cedere, nel momento finale» continuò Larry. «Vivono nelle fantasie, nell’immaginazione, ma quando arrivano a doversi sporcare le mani, crollano.»

«Io non sono così. Te lo posso assicurare.»

«Assicurare? E come?»

John abbassò il volto. Sorrideva, tremava.

«Perché l’ho già fatto.»

Larry inarcò un sopracciglio.

John si alzò a spegnere il televisore e si sedette torcendosi le mani. «È una cosa che non sa nessuno. Ma a te sento di poterla raccontare. Sei come un padre per me.»

Aveva sedici anni quando le aveva incontrate. Erano due ragazze della sua età, sorelle, con capelli lunghi e scuri come le native americane, la pelle chiara e i fianchi morbidi. Erano venute a Cooperstown in compagnia di amici, in vacanza per una settimana. John era bello, e ci sapeva fare, e si era riuscito a portare la minore, Lindsay, nel suo capanno, dove aveva disposto fiori e candele attorno a un materasso. Aveva preparato bene il momento, era stato un cavaliere, e smaniava dall’impazienza. Ma al momento di togliersi i vestiti, lei si era tirata indietro. All’insistenza di John, si era fatta irrequieta e aveva provato ad andarsene. Era finita in terra, non sul materasso, e aveva lottato con tanta forza che a un certo punto John era stato costretto a fermarla. D’un tratto si trovava del sangue sulle mani e due occhi che fissavano il soffitto.

Non aveva provato rimorso. Non era spaventato, anzi, si era sentito potente. Aveva fatto qualcosa che nessuno aveva mai creduto potesse fare, nemmeno suo padre, che portava a giocare a baseball un ragazzo che non era suo figlio.

Si era sdraiato accanto alla ragazza, col cuore all’impazzata, e si era riscosso quando era venuto qualcuno a bussare. Era la sorella. John si era allarmato, le aveva chiesto se qualcun altro sapesse che Lindsay era venuta lì, ma lei gli aveva risposto che non lo aveva detto a nessuno tranne che a lei. Alla domanda se i suoi amici la stessero aspettando, disse che erano tutti ubriachi, giù alla taverna di Joe, e che era venuta da sola perché si era fatto tardi. Quello che accadde dopo fu molto rapido, in un certo senso più efficiente, e alla fine John si era trovato con due corpi da seppellire. Aveva pensato di dirlo a suo padre ma non lo avrebbe capito, così aveva dovuto fare tutto da solo.

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Le ragazze erano state date per scomparse e nessuno aveva investigato su di lui, che si era sempre tenuto lontano dal loro gruppo di amici e dal disordine. Quando la polizia era venuta a chiedere informazioni in quella casa, aveva sentito chiedere al padre se il figlio le conoscesse e potesse essere stato in grado di far loro del male. “Chi, quel buono a nulla? Al massimo sa contare fino a dieci”, aveva risposto. Alla fine, anche se non aveva un alibi, risultò non avere neanche una motivazione o un legame con le sorelle Lindsay ed Emily Millard, così non fu mai indagato.

«È una bella storia, ma non hai prove di tutto ciò» fece infine Larry. «Sei stato dentro per crimini minori, e ora mi parli di un duplice omicidio.»

«Posso portarti dove le ho sepolte.»

Salirono sul pick-up quella sera stessa, due vanghe e sei lattine di birra caricate dietro, e guidarono fino a Cooperstown, a due ore di distanza. John avanzava nel bosco illuminandolo con il grosso fascio di luce della torcia da campeggio di Larry. Erano molti anni che non veniva lì, ma ci era cresciuto, e si faceva strada riconoscendo i segni sugli alberi e i massi scuri. Giunse presso una radura, sotto una quercia che era stata abbattuta da un fulmine vent’anni prima e che era diventata parte del sottobosco, divorata dai rovi e dagli arbusti. Iniziò a scavare senza dire nulla, e Larry con lui. Le mani gli sudavano e si dovette togliere la maglietta dopo poco, lanciandola sulla terra. Si ricordava di aver scavato in profondità, ma non troppo. Aveva pur sempre sedici anni. Si fermò quando sentì la vanga cozzare contro qualcosa di duro e fece cenno a Larry di illuminare la buca. Lo scintillio di qualcosa di bianco lo rese euforico.

«Ecco, hai visto? Te l’avevo detto che…»

Ma le parole gli furono ricacciate in gola con forza, dal colpo di vanga che gli arrivò in pieno volto. Cadde all’indietro, svenuto, con la bocca piena del suo stesso sangue.

Larry gli sollevò le gambe e gli spostò il corpo dalla buca, scendendo lui in essa. Si piegò a terra e cominciò a disseppellire le ossa con dei guanti da giardiniere, raccogliendole con cura in un sacco. Quando ebbe finito, scavò ancora più a fondo, un metro, un metro e mezzo, e ci fece rotolare il corpo di John. Erano almeno due metri abbondanti. Cominciò a seppellirlo e finì che iniziava ad albeggiare a est.

Raggiunse una radura e impilò tre grosse pietre, adagiandoci sopra foglie secche, rametti e ossa. Da uno zaino estrasse una bottiglietta di benzina e un accendino e si sedette mentre il fuoco trasformava tutto in una cenere fina che raccolse in una giara molto più piccola di quella che gli sarebbe servita se i due corpi fossero stati interi.

Uscì dalla foresta, raggiunse il pick-up e si spogliò degli abiti sporchi di terra, sciacquandosi le mani e la faccia. Gettò via quella camicia da boscaiolo e quei pantaloni da contadino, indumenti che non aveva mai usato, indossando delle scarpe da vela, dei jeans chiari e una maglia di cotone bianca.

Si mise alla guida con la giara alla sua destra. La strada per Boston era lunga. Fece due pause, una per fare rifornimento e una per pranzare. Non parlò con nessuno ma in entrambi i casi lasciò delle grosse mance. Arrivò al cimitero di Mount Hope che era pomeriggio inoltrato e si fermò per acquistare il mazzo di fiori più bello che trovò in vendita. Quando oltrepassò il cancello del cimitero, era un uomo diverso. Salì il pendio verde smeraldo puntellato di tombe di granito, fermandosi a quella di Susan Millard. Cambiò i fiori secchi con quelli nuovi e adagiò la giara a destra della tomba, vicino a una foto che ritraeva una donna sulla cinquantina, dai capelli scuri e il sorriso fino. Ci passò due dita sopra e si inginocchiò portando il viso sull’erba fresca.

«Te l’avevo promesso, Susan» mormorò. «Te l’avevo promesso che avrei riportato le ragazze a casa.»

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