Chantal Lengua

Centro lago

Sette avventori persi come me si voltarono restituendomi uno sguardo vitreo. Uno di loro pareva familiare.

Al bancone, un bicchiere già pronto, pieno di acqua di lago. Mi sedetti e lo sgabello di legno scricchiolò con un rumore melmoso e ovattato. Il barista era un'ombra d'uomo. Non lo vidi in faccia.

«Fuori è pericoloso. Come sei finito qui?»

Feci per prendere un respiro, ma di aria lì non ce n'era mai stata. Iniziai il mio racconto.

 

Di crimini non se ne erano mai visti, a Ellwood. Così, il mio day-to-day si era da sempre imbottigliato in compiti amministrativi, furtarelli e pattuglie di routine, fino a quando non arrivarono, il 17 novembre, il giorno dell'occhio del diavolo. Sei ricercatori di Stanford, senza autorizzazione né scopo di ricerca. Si piazzarono alla locanda della vecchia Sue colonizzandola con mappe e attrezzi scintillanti senza proferir verbo. Tutto ciò che facevano era scendere al lago, ogni giorno per trentun giorni, fino a che non scomparvero, tutti e sei, lasciando una barca a motore in balia della corrente con sei cellulari ancora accesi.

La vecchia Sue disse di non saperne niente e cominciammo le investigazioni. Nelle stanze trovammo centinaia di campioni d'acqua, sulle mensole, nei cassetti, in valigette sotto i letti. Che stessero cercando agenti di contaminazione? Quella sera raccomandai a Marlene di cucinare con l'acqua minerale e il giorno dopo ci presentammo con tute anticontaminazione e mascherine.

Ma non facemmo passi avanti. Gli appunti sui loro taccuini erano criptati e i computer protetti. Chiamammo Stanford che negò l'invio di ricercatori. Sguinzagliammo i cani nella foresta e ci chiudemmo a studiare quei codici di forme e simboli alfanumerici, complessi e derivanti da alfabeti antichi. Rintracciammo la madre di una ricercatrice, Mrs. Bernarthy, dopo cinque giorni trascorsi a tentare di chiamarla. Non aveva mai risposto: era in rehab. Acconsentì a un'intervista e la raggiunsi a Galena, in Illinois. Non vedeva la figlia da tre anni, da quando si era unita a un gruppo di ricerca informale. Non disambiguò l'ultima parola. Confermò che aveva studiato Biologia, abbandonando gli studi. La sua camera era stata trasformata in un deposito, e dietro la gamba di un cavalletto da fotografia rinvenni un quaderno di appunti. Parlavano di acqua, parlavano del centro dei laghi. Che significava?

Contemporaneamente, in commissariato, Evans aveva tradotto pagine parziali dei taccuini e abbinato i dati con le mappe rinvenute alla locanda. Confrontammo le nostre ricerche: gli scomparsi stavano cercando il centro del lago di Ellwood, il centro esatto.

Il lago, una trentina di chilometri quadrati, si estendeva con forma oblunga e irregolare fino al confine con l'Illinois. Era come un'oliva schiacciata che saliva con un'estremità verso le colline, come un mostro marino con un collo grinzoso. Grottesco, per certe sue frastagliature, melmoso in ogni punto. Impossibile trovarne un centro. A che scopo, poi?

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Ma loro ne parevano ossessionati. Chiedemmo supporto alla polizia di Rockford per scandagliarne il fondo nei pressi di quello che nelle mappe era stato identificato come il centro ma non trovammo nulla. Nei mesi, la pista si freddò. Si tornò ai furtarelli, alle pattuglie di routine. Ma ogni tanto ci tornavo, al lago. Avevo riparato il motore alla barca che era appartenuta a mio padre e che avevo seppellito in garage dal giorno in cui era annegato, tre anni prima, proprio tra quelle acque. Con quella, filavo sulla superficie limacciosa seguendo la triangolazione delle cartine, raggiungendo l'ipotizzato centro del lago, che sulle cartine corrispondeva pressappoco alla gola del profilo del mostro marino. Giunto lì, abbassavo una mano, sfioravo l'acqua. Sempre fredda, sempre bagnata.

Ingannavo il tempo, pescavo una trota, se ero fortunato. A volte raccoglievo anche io dei campioni d'acqua, li portavo a casa, li tenevo un po' e poi li gettavo nel gabinetto.

Marlene mi diceva di non seguire quelle orme, per non rivivere la morte di mio padre, di lasciarli andare, che si erano suicidati e annegati, che si erano spinti troppo in là e il lago si era preso la loro mente e non poteva prendersi anche la mia. Ma forse lo stava già facendo.

Così, quel giorno, lo vidi, dalla barca che oscillava pigramente: un piccolo vortice, una macchia di follia in un lago piatto come una lastra. Avvicinandomi con un colpo di remi, mi accorsi che non era un vortice, ma un vero e proprio buco di venti centimetri di diametro. Provai a guardarci dentro: solo buio. Ci calai un pezzo del mio panino con la lenza e lo ritirai fuori inverosimilmente asciutto.

Cercai di ricordare cosa avessero scritto i sei ricercatori a proposito del centro del lago, ma oltre a calcoli geografici e idrogeologici, non c'era nulla. Nessuno scopo superiore, nessun avvertimento. Avrei preferito che ci fosse.

Avvicinai le dita a quell'irreale fessura nell'acqua e ne venni risucchiato fino alle profondità. Sentii i timpani esplodere e la pelle congelarsi, e mi trovai con le scarpe immerse nella melma e l’acqua che mi premeva da ogni direzione. Feci per nuotare verso l'alto, ma qualcosa mi teneva a terra, in una morsa terribile.

Intorno a me, la sensazione di lunghe alghe scivolose. Buio totale. O meglio, qualcosa si vedeva, in lontananza. Mi accorsi di non avere fame d'aria e di potermi spostare a passi pesanti nell'acqua, come un astronauta su un pianeta dalla massa più pesante del suo. Mi avvicinai faticosamente a quella che pareva essere una costruzione in legno marcio divorato dalla melma. Appoggiai le mani sulla porta e spinsi, entrando.

Nella locanda, sette avventori persi come me si voltarono restituendomi uno sguardo vitreo. Uno di loro pareva familiare.

Al bancone, un bicchiere già pronto, pieno di acqua di lago. Mi sedetti e lo sgabello di legno scricchiolò con un rumore melmoso e ovattato. Il barista era un'ombra d'uomo. Non lo vidi in faccia.

«Fuori è pericoloso. Come sei finito qui?»

Feci per prendere un respiro, ma di aria lì non ce n'era mai stata. Iniziai il mio racconto.

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