Chantal Lengua

Frontiera

Avevamo camminato duecento chilometri, tra gli scorpioni e le stelle, tra le rocce e le speranze. Avevamo camminato duecento chilometri e ce ne mancavano ancora trecento, trecento per raggiungere una promessa sfuggente come un bacio di Giuda.

Mi si era rotta una scarpa e l'avevo aggiustata con un lembo strappato dal vestito, a ogni passo sollevavo una secchiata di sabbia. Avevo sete ed ero stanca, ma ero l'unica donna in quella carovana a piedi, quindi me ne stavo zitta. Non conoscevo i nomi degli altri: li vedevo muoversi nel buio davanti a me, ombre sputate verticalmente dalla terra, e camminavo sulle loro impronte, come se a farlo disturbassi meno il deserto che stavo varcando.

Avevo superato la frontiera messicana già da diverse ore, e al termine dell'esodo mi avrebbe accolto un uomo, Pedro, di più non sapevo, che mi avrebbe fornito un documento americano. Avevo dato tutto, per averlo. Poi, avrei lavorato e tirato fuori dal Messico anche nonna Maria, l'avrei tirata fuori e l'avrei curata.

Gli uomini davanti a me percorrevano spesso quella tratta: portavano dei borsoni – cocaina? – che avrebbero rivenduto nella Terra delle Opportunità. Mi ero accodata a loro invece che alle carovane degli immigrati civili perché non avevo abbastanza soldi. Il rischio era più alto.

Pensavo che avrei avuto le stelle dalla mia parte, e invece le vidi presto, in lontananza: erano cadute sulla terra, solo che non erano stelle, erano torce.

Gli uomini attorno a me si intesero nel silenzio, gettandosi dietro le rocce e tirando fuori i fucili. Nessuno mi avvertí, un attimo prima camminavamo in fila, un attimo dopo camminavo da sola, e il primo benvenuto americano mi prese in pieno petto, sbalzandomi a terra. Rimasi agonizzante mentre i nostri rispondevano al fuoco. Mi trascinai con i gomiti dietro al masso di un uomo. Nel ricaricare la sua arma incontrai lo scintillio dei suoi occhi: non aveva paura. Fu così che morì, ricadendo indietro, con gli occhi di chi non aveva avuto paura.

Quando il fuoco cessò non ebbi il coraggio di togliere il giubbotto antiproiettile: rimasi immobile, lo sguardo immerso nella Via Lattea sperando che mi attraesse a sé, ascoltando i loro passi in avvicinamento. Non facevano rumore.

Chiusi gli occhi, perché i miei non erano come quelli dell'uomo, non erano occhi senza paura, e quando li riaprii, vidi una stella nella notte, accecante, bianca, su di me. Mi urlarono qualcosa, io l'inglese lo avevo studiato ma in quel momento non potevo capirlo, sentivo che avrei vomitato sulle scarpe di quello davanti a me. Poi la torcia schizzò via e mi lasciò cieca. Quando riacquistai la vista, c'era un altro uomo al posto suo, più giovane, seduto sulle caviglie. Puntava la torcia sul suo viso, non sul mio.

«Mi chiamo Ken» disse, in spagnolo. «Cosa porti negli Stati Uniti?»

Gli porsi la mia borsa a tracolla a capo chino.

«Soldi, medicine, una borraccia vuota... e una lettera. Chi te l'ha data?»

Parlai, per la prima volta da ore. «La mia abuela

«È sigillata. Posso aprirla?»

Nonna Maria avrebbe voluto che la aprissi arrivata a Sweetwater, ma non ero nella posizione di replicare, così annuii.

L'americano la aprì e lesse. Il suo sguardo si corrucciò, a metà, poi si fece morbido, verso la fine. La infilò nella tasca interna del giubbotto scuro.

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Feci per protestare, ma lui si alzò. Disse qualcosa agli americani e quelli abbassarono le armi e le torce, raggiungendo i colleghi. Mi porse la sua mano, e vidi che aveva gli occhi grandi.

«Vieni con me, Alicia.»

 

I primi giorni li passai nella sua casa. Mi lasciò vestiti puliti, bianchi, acqua corrente e cibo nel frigorifero. Non tornò mai, anche se la casa era sua, lo capivo dalle foto incorniciate: lui con una medaglia, lui con gli amici, lui con un padre uguale a lui. Sarei potuta scappare, le porte non erano chiuse, ma dove sarei andata? Avevo saltato l'appuntamento con Pedro, rivolevo la lettera della mia abuelita e dovevo lavorare per portarla qui e curarla.

Tornò alla quarta sera, aveva ancora l'uniforme e lo sguardo stanco, ma mi sorrise.

«Volevo portarti dei fiori ma ho pensato che sarebbero stati più utili questi.»

Pose due burrito sul tavolo spoglio e scoppiò a ridere come se avesse appena fatto una figuraccia e se ne fosse reso conto tardi. Apparecchiò alla bell'e meglio mentre io lo guardavo: era basso e aveva i capelli dal taglio militare, ma aveva un viso armonico, gli occhi grandi e la mascella sottile.

«Ho dormito in albergo per darti il tempo di ambientarti. Da stasera torno qui. Ci sono due stanze.»

Annuivo perché era lui il poliziotto che mi aveva sequestrata, ma volevo andare via il prima possibile.

«So che vorresti raggiungere un messicano, uno del cartello, un civile o uno che non sia uno sbirro, ma te lo sconsiglio. Finiresti in un giro pericoloso.»

Ci mettemmo a cena, parlammo della mia terra e della sua, poi si eclissò nella sua stanza. Andò così per una settimana, quando trovai il coraggio di chiedergli di lasciarmi andare.

«Tu puoi andare quando vuoi.»

Raccolsi i miei pochi oggetti e uscii. Seduta su una panchina, maledissi la mia scelta, aprii la borsa e ci trovai la mia lettera. La lessi.

Tornai a casa di Ken quella sera stessa.

«Il mio unico scopo», gli dissi, «era guarire la donna che mi ha cresciuta.»

«Ma lei è malata di cancro e ti ha detto di voler morire in patria, e che una volta giunta in America avresti dovuto vivere la vita che volevi» disse lui, indicando la lettera stropicciata che stringevo tra le mani.

Iniziai a piangere, lentamente, e lo sentii avvicinarsi.

«La gente non dovrebbe attraversare un confine a piedi e rischiare di morire per avere delle cure migliori. Non dovrebbe indebitarsi per averle.»

Mi toccò una spalla con delicatezza.

«Conosco un uomo che può farti avere un passaporto americano in pochi mesi. Così puoi cominciare a lavorare ma, questa volta, per te, per il tuo futuro. Cosa ne pensi?»

Tra le lacrime, annuii.

«Bene, perché l'ho già pagato. Avrei perso un sacco di soldi». Rise.

«Perché fai questo?»

Si fece serio. Rispose tornando in cucina, scolandosi un bicchiere d'acqua come se fosse scotch. «Perché non sei l'unica ragazza a tentare la frontiera».

«E...?»

«E a volte, beh, è capitato che... con il buio...»

Non rispose più. Mentre risciacquava il bicchiere e si lavava le mani, le immaginai rosse, viscose e scure.

 

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