Un uomo mi disse che ci sono alcuni luoghi al mondo dove le forze che tengono unita questa realtà sono alterate. Portava con sé un taccuino consunto, con una copertina rilegata in pelle rovinata sul dorso e piena di parole nella calligrafia che avrebbe avuto una tempesta se avesse saputo scrivere. Lo aprì davanti a me e iniziò a leggere tenendo il segno con un dito ossuto: gli aeroporti, le corsie d'ospedale alle tre del mattino, le cattedrali un attimo prima della chiusura, i corridoi completamente bui, i binari dei treni ma solo quelli oltre le stazioni, i diner nel deserto, le lavanderie automatiche, i negozi di oggettistica giapponese, i parcheggi al chiuso, i parcheggi all'aperto, i caselli autostradali senza operatori, i giardini botanici all'alba, le officine meccaniche quando non c'era nessuno anche se per pochi secondi, gli stadi vuoti, i cinema aperti al pomeriggio che mettevano i biglietti scontati, le scale mobili ferme, gli alberghi da demolire, le stazioni ferroviarie nella nebbia, i sottopassaggi pedonali.
La lista continuava per molte pagine, intervallata da segni che non avrei saputo decifrare: asterischi, sottolineature, barrature, punti esclamativi, cancellazioni. Sembrava molto vecchio, vissuto.
«E cosa succede in questi posti?» gli chiesi.
«Non vuoi trovartici completamente solo.»
Ricordo che mi guardai fugacemente intorno, in quella stazione ferroviaria a mezzanotte, a controllare che ci fosse qualcuno oltre a noi due. Ma non c'era.
È l'ultima cosa che ricordo, di casa.
Poi fu solo buio.
È buio da tanti anni ormai.