Chantal Lengua

Tra le braccia crudeli
di Nettuno

Mermaid Bay doveva il suo nome ai presunti avvistamenti di sirene che alimentavano il merchandising selvaggio della città: cartoline con sirene, borsette con sirene, portapillole con sirene, asciugamani con sirene. Esche brillanti per turisti dal portafoglio slabbrato, ma la verità era un’altra e chi ci viveva la conosceva: mai andare per mare con la luna piena, mai addentrarsi nelle grotte salmastre se non armati di coltello, mai accettare perle in dono, e mai, mai seguire un canto, quale che fosse l’ora del giorno o della notte. Questo si mormorava tra le labbra rugose dei pescatori, custodi di una saggezza senza tempo. Ma l'unico canto che conoscevano i commercianti era il denaro, ed eterna era la loro lotta nel ridurre quegli avvertimenti a un vociare folkloristico, che male avrebbe fatto agli affari.

Da poco avevo superato la paura del mare, dopo che ero caduto da una barca da bambino rischiando di annegare. Questo aveva finalmente aperto la prospettiva di una vacanza al mare in famiglia, e mia madre aveva scelto Mermaid Bay. Il nostro albergo affacciava sul vecchio porto, dove pescatori si rovinavano le mani spostando grosse reti salate. Si muovevano sempre in coppia, ma allora non lo trovai strano. Anzi, proprio non lo notai. Le mie sorelle volarono in spiaggia cinguettando con voci sgraziate mentre i miei rimasero in camera "a disfare le valigie", nuovo linguaggio in codice per dire sesso, come se a diciott'anni non lo avessi capito da solo. Uscii e iniziai a camminare. Trovai un ragazzo che pescava e gli chiesi dove avrei potuto incontrare gente della nostra età. Mi diede qualche dritta, una spiaggia a sud, un locale vicino alla piazza principale. Mi mostrò poi il suo pescato e insistette per darmi un dentice - che cazzo me ne facevo io -, dicendo che non bisognava mai girare lungo la costa a mani vuote. Me lo incartò e me lo schiaffò sul palmo. Come ultimo strano avvertimento mi intimò di non addentrarmi nelle grotte a ovest, soprattutto se avevo avuto incidenti in mare da piccolo.

«Sono quasi annegato cadendo da una barca», dissi. «Ma che c’entra?».

«E come ti sei salvato?».

«Non lo so, avevo tre anni. Mia madre mi ha trovato che galleggiavo».

«Ecco. Gesù. No, non andare assolutamente nelle grotte. Loro lo sanno. Lo fiutano».

«Ma loro chi?».

«Le sirene».

Risi. Ero giovane e ingordo di rischi, così inforcai le scarpe tra le dita ed entrai lo stesso. Dentro era fresco, l'acqua mi lambiva le caviglie e la luce animava le arcate frastagliate di riflessi traslucidi. Non ricordo quanto tempo trascorsi seduto con le gambe a penzoloni nell’acqua e l’eco della risacca tra le rocce, ma quando mi voltai, la vidi: mi fissava, con la schiena dritta e una pinna che le partiva dal cranio e le scendeva lungo la schiena come un marlin. Era abominevole, una creatura che di umano conservava solo il corpo superiore, diviso in busto, testa e braccia. La pelle era grigia come quella di uno squalo, le mani palmate e artigliate, e gli attributi mammiferi scomparsi: seno, ombelico, capelli. Sulle costole si aprivano sei larghe slabbrature gocciolanti, forse branchie, mentre occhi neri e acquosi mi studiavano indecifrabili. Sedeva come me, la lunga coda di pesce che mulinava pigramente l’acqua.

Se riuscii a rimanere immobile fu solo per rigor mortis.

Lentamente, la creatura sollevò un braccio in mia direzione, con il palmo verso l'alto. Mi dimenticai come respirare, fissando gli artigli. Rimasi in apnea, ma anche lei. Era immobile. Voleva qualcosa. Le appoggiai sulla mano il dentice che mi aveva dato il ragazzo. Lei se lo portò in grembo e in cambio mi diede una perla grande come una pallina da golf. Saltò e sparì nella risacca.

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Nessuno mi prese sul serio quando lo raccontai, neppure mostrando la perla, additata come di plastica. Pensavano fosse un’allucinazione dovuta al PTSD per l’annegamento da piccolo. Ma quando la porsi al giovane pescatore, la sua sentenza fu brutale: il mio destino sarebbe stato legato alla terraferma per sempre. Una volta ottenuto il dono di una sirena - perla, conchiglia, pepita -, l’immonda creatura mi avrebbe cercato lungo ogni costa per riscuoterne il pagamento, ossia il mio corpo divorato negli abissi. Ripensai a quelle labbra esangui. Quanti canini doveva avere, per poter sbranare pesci crudi?

Tenermi lontano dal mare: questo dovevo fare. Ci riuscii, quell’estate, ma non resistetti alle acque turchesi di quella successiva, in Grecia. Un oceano intero mi separava da Mermaid Bay: se la creatura ancora mi cercava, di certo non mi avrebbe trovato lì. Ed ecco invece la sua pinna dorsale, irta e azzurrina, comparire tra la spuma bianca della barca su cui sfrecciavo con gli amici. Gridavano, “che bello, un delfino!”. Folli. Mi feci lasciare a terra e passai la vacanza a guardare dalla finestra dell’albergo. Dal mare affiorava, talvolta, una testa scura. Mi cercava.

Trascorsi la mia vita tra Dallas e Fort Worth, lontano da fiumi ed estuari. Tornai talvolta a Mermaid Bay, negli anni, cercando modi per spezzare la maledizione. I marinai ormai mi conoscevano: quando mi vedevano scuotevano la testa, affranti, come di fronte a un condannato alla forca. Mi resero partecipe dei segreti della città, quelli che la polizia e i commercianti sotterravano: sparizioni, rapimenti, morti. Cadaveri mai ritrovati. Tombe vuote, fiori secchi, speranze asciutte. Una di quelle tombe sarebbe potuta essere la mia. Per evitarlo, dovevo solo sfuggire al mare, vivere nella paura, abusare di psicofarmaci per dormire notti senza incubi. Ma era forse vita, quella? Temevo perfino la vasca da bagno, ormai. Temevo la doccia. Arreso, decisi infine di tornare a quella grotta. Sentii lo sciabordare dell’acqua, riverberato e amplificato dalla pietra, poi la vidi, la pinna frastagliata che fendeva il velo scuro del mare. La sirena affiorò, ghignò mostrando uno schieramento di denti aguzzi e mi circondò il polso con una mano palmata. Mi tirò morbidamente in acqua. La seguii. Finiamo questa storia. Sono pronto. L’invito delicato si trasformò in uno strattone potente, quando mi afferrò anche il collo e si gettò verso le profondità. Esaurii l’ossigeno in pochi secondi, e mentre grosse bolle d’aria mi uscivano dalla bocca, il diaframma cominciò a pugnalarmi il petto con colpi disperati. I miei occhi si fecero ciechi, la mia pelle congelata, i miei timpani esplosi. Ma la sirena continuava, continuava a tirarmi giù. Maledetta, uccidimi azzannandomi il collo!

Conoscevo queste sensazioni. Le avevo provate da bambino, cadendo dalla barca: si dice che annegare sia come addormentarsi, che si perdano i sensi e si svenga come cullati tra le braccia di Nettuno, ma la verità è che è una morte orribile, bruciante e soffocante, e la sentii esplodere nel cervello fino all'ultimo neurone. Ma… ma ci fu un dopo. I miei occhi si abituarono all’oscurità, i miei sensi percepirono un frastuono che da ovattato si fece sempre più definito: la sabbia smossa dai polpi, il guizzo delle pinne delle cernie, un rombo, lontanissimo, come di barca a motore.

La sirena mi prese il viso tra le mani. Guardando il suo volto ferino mi accorsi per la prima volta di quanto fosse attraente.

«Puoi tornare sulla terra o rimanere con noi». Non so come la capii. Dalla sua gola usciva un suono scomposto, modulato, come il canto di una balena. «Vi estinguerete. Il mare non sarà clemente. Ti prego».

Aprii la bocca per rispondere ma non ci riuscii. Un tonno nuotò pigramente sotto di noi. La sua coda mi sfiorò la gamba. Schizzai verso l’alto, nuotando come un ossesso. No, no, no, questa è follia. Pregai che la creatura non mi artigliasse la gamba per trascinarmi giù, ma così non fu, e quando raggiunsi la superficie affiorai boccheggiante come una boa tenuta sott’acqua. Mi salvò un gruppo di pescatori, che assistette incredulo al mio strappo della camicia mentre mi tastavo il petto alla ricerca di sei branchie slabbrate. Trovai solo pelle liscia.

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Decisi di agire. Dal denaro ricavato vendendo la perla acquistai fucili e armai i pescatori di Mermaid Bay. Basta mormorii silenziosi, basta marketing alla Disney: essiccammo i primi cadaveri anfibi e li consegnammo agli scienziati per dissezionarli. Fu una rivoluzione. La città ottenne un altro tipo di sovvenzione: non più turisti bianchi e famiglie ricche, ma FBI e laboratori Los Alamos. Mi macchiai del sangue di centinaia di mostri e invecchiai con le mani vermiglie. Decisi di chiudere con il mare quando erano passati almeno vent’anni dopo l’inizio dello sterminio. Ma il mare non aveva chiuso con me, anzi, non aveva chiuso con l’umanità. I primi tsunami si sollevarono poco dopo: Maldive, Bahamas, Cayman, Fiji, scomparse. Ma erano solo atolli, e a pochi governi importò. Poi vennero Venezia, Amsterdam, Jakarta, Shangai, Osaka, San Francisco e Los Angeles. Infine, intere nazioni: Bangladesh, Indonesia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, India. Dal mio rifugio in collina vedevo il mare salire giorno dopo giorno all’orizzonte, come un’immonda bestia grigia, trascinandosi fango, automobili, cadaveri. I climatologi lo avevano previsto, ma non così in fretta: riscaldamento climatico, scioglimento dei ghiacciai, espansione termica dei mari… e le creature che lì vivevano, quelle che avevo sterminato, lo sapevano da tempo. Avevano provato a salvarci, uno alla volta. Ma ormai avevo bruciato il mio biglietto per la salvezza e Mermaid Bay era affondata così come tutta la costa est. La mia sirena forse ammazzata come le altre, per ordine mio o dei laboratori.

Mi sdraiai sul materasso sgualcito e rimasi così, in attesa di morire. Il mare rombava in lontananza. Presto mi avrebbe ingoiato. Dormii un sonno multiforme e mi svegliai sentendo lo sciabordare sotto la porta: era salito e premeva per invadere la stanza. L’acqua fangosa sfondò il legno e mi investì come un idrante, soffocandomi. Ma percepii anche due mani, forti e fredde, afferrarmi e trascinarmi via da lì, giù lungo il letto del mare, un tempo collina puntellata di case. La creatura mi portò sul fondo, e nuovamente vicino a lei potrei mettere a fuoco lo spazio liquido e il suo volto: la riconobbi. Questa volta, fui io a modulare suoni per primo.

«Dopo tutto questo tempo, dopo tutto quello che ho fatto alla tua specie… Tu sei venuta a salvarmi». Mi aveva perdonato. Avrei potuto vivere per sempre, ora, conservarmi giovane come lei, il cui corpo non tradiva i segni del tempo. Avrei potuto… Ma la creatura mi trapassò con una lama e dal mio stomaco si spanse una nube rosso sangue. Ne sentii il sapore metallico sulle labbra, mentre si diffondeva nell’acqua. Lessi nei suoi occhi lo scintillio della vendetta. Le appoggiai una mano sulla spalla nuda ma lei ondeggiò e nuotò via.

Fu lì, in punto di morte, che ricordai come fossi sopravvissuto da bambino: cadendo dalla barca, ero affondato per molti metri prima che un paio di mani palmate mi raccogliessero e mi spingessero verso l’alto. Se non lo avessero fatto, se non fossi stato salvato, la sua specie non sarebbe stata sterminata. E sarebbero sopravvissuti anche più umani, poiché ero stato io a rafforzare il verbo di non scendere in mare con i mostri. E così, ora, finiva quel che era iniziato: un bambino divenuto uomo, divenuto mostro, agonizzante sotto decine di occhi acquosi, moriva infine, tra le braccia crudeli di Nettuno.

 

 

 

 

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