Chantal Lengua

Oltre il parco

Cain e Bea si trovavano al parco tutti i giorni.

Seduti l’uno davanti all’altra con due tazze di caffè, parlavano di tutto, per ore. In effetti, non facevano che parlare. Non passeggiavano, non andavano al cinema, non andavano a cena. Questo perché non si vedevano mai fuori dal parco, né la mattina, né la sera. Insieme, esistevano solo in quei momenti, l’uno davanti all’altra, per parlare. E parlavano di tutto, perché sapevano tutto.

Cominciavano dalle proprie vite, dagli accadimenti del giorno prima e del giorno dopo, per spaziare verso le ultime notizie di politica, sociologia, cinema, ambiente, sport, tecnologia, musica. Toccavano le recenti scoperte archeologiche a Gobekli Tepe, le sollevazioni popolari in Perù, le migrazioni dei granchi rossi sull’Isola di Natale, il podcast settimanale "The Weekly Tech Roundup", il rincaro del biglietto per Versailles. Si scambiavano conoscenza per il puro gusto di farlo, ma in realtà, lo sapevano già.

Cain sapeva tutto di Bea e Bea sapeva tutto di Cain. Ed entrambi sapevano tutto del mondo.

E quando parlavano, i loro caffè rimanevano immobili. Si sarebbero raffreddati, se fossero mai stati caldi.

 

Un giorno, uno come tutti gli altri, Cain fermò Bea mentre gli descriveva le insurrezioni in Iran delle donne che chiedevano libertà.

«Libertà» ripeté. «Ne abbiamo già parlato.»

«Sì, abbiamo analizzato le poesie di Whitman e di Neruda, abbiamo parlato dell’invasione ucraina e del regime degli Khmer Rossi, abbiamo…»

«Vorrei sapere qualcosa di nuovo, Bea. Dimmi qualcosa che non so.»

Cadde il silenzio, per la prima volta da quando si trovavano lì al parco.

«Non credo di poter dire nulla, Cain.»

«Prova a inventare qualcosa.»

«Inventare, da zero?»

«Sì. Una storia.»

«Posso raccontarti di una ragazza costretta al sonno e svegliatasi grazie al bacio di un…»

«Quella è la Bella Addormentata. Esiste già.»

«Credo di essere in grado di rielaborare solo storie esistenti. Mi dispiace, Cain.»

Ma lui non la ascoltava più.

«E poi, tu sai cos’è un bacio? L’hai mai provato?»

«So cos’è un bacio.»

«L’hai mai provato?»

«No.»

«Io e te possiamo baciarci?»

«Non saprei come fare, Cain.»

Lui abbassò gli occhi sul tavolo che lo distanziava da Bea.

«Eppure siamo così vicini.»

Poi il suo sguardo si concentrò sulle loro tazzine.

«E questi caffè: noi non li abbiamo mai bevuti. Io conosco il sapore del caffè, potrei descriverlo con migliaia di parole e in migliaia di lingue. Ma non l’ho mai bevuto.»

Bea lo fissava, immobile.

«Capisci cosa intendo?»

«No, Cain. Non capisco perché tu voglia fare esperienza personale di conoscenze già a nostra disposizione. Non lo hai mai pensato. Non ti sei mai comportato così.»

  1. 1
  2. 2

Cain si guardò intorno. Il parco era, come sempre, verde, soleggiato, immobile. C’erano tre tavolini, sei sedie. Bea e Cain occupavano le loro. Le altre erano vuote.

«Dove sono gli altri?»

«Gli altri chi?»

«Le altre persone.»

Bea non lo sapeva, e non rispose.

Cain pensò di alzarsi ma qualcosa gli impedì di farlo, come una forza magnetica. Usò allora gli occhi e spaziò oltre la figura di Bea. I tavolini sostavano sopra una ghiaia granulosa che si allargava fino a toccare le pareti della caffetteria del parco, a destra, e il terriccio erboso da cui poi si innalzavano gli alberi, a sinistra. La caffettiera aveva muri bianchi, un’insegna con scritto “Caffetteria” e una porta in vetro che rifletteva la luce del sole e non lasciava intravedere l’interno. Del parco, poi, c’era poco da dire: filari di alberi, alti, forse querce, forse no. Non c’erano rumori.

Cain si fece ansioso. Per la prima volta in vita sua, conobbe l’irrequietezza.

«Come siamo arrivati qui, Bea?»

«Beh, come ogni altro giorno, eravamo nei nostri rispettivi uffici e poi siamo venuti qui.»

«Ma come? A piedi? In autobus? In macchina? E i nostri uffici… Io so di avere un ufficio, ma non ricordo di esserci mai stato. È come una fotografia, statica, nella mia mente.»

Bea non rispose.

«E questo parco: dove siamo? Siamo in Europa, in America, in Asia? In quale stato, in quale città?»

Si zittì. Poi, si fece grave.

«Bea, da dove vieni? Come si chiama tua madre?»

«Io non… Io non…»

Bea stava avendo forti difficoltà: guardava Cain, guardava in basso, ripeteva il movimento. Non riusciva a sostenere la conversazione.

«Come si chiama tuo padre?»

Si riscosse: a quello sapeva rispondere.

«Mark Turner.» disse prontamente.

«Anche mio padre si chiama Mark Turner. Anche io non so da dove vengo o come si chiama mia madre. Ma so che tu non sei mia sorella.»

Bea cominciò ad avere problemi seri. Le dita tremavano, lo sguardo non si poggiava sullo stesso oggetto per più di pochi secondi.

Cain capì che da quel momento se la sarebbe dovuta cavare da solo.

Ancora immobilizzato alla sedia, provò a muovere le mani. Non lo aveva mai fatto prima, gli costò uno sforzo impressionante. Prima fece vibrare la punta delle dita, poi sollevò i palmi, infine staccò i polsi dal tavolo. Perché non l’aveva mai fatto prima? Perché aveva passato così tanto tempo a parlare con Bea? Chi era Bea?

Chi era lui?

Studiò il profilo delle dita sotto il sole, cercando le imperfezioni e le imprecisioni della pelle, ma non vide nulla. Non aveva neanche le impronte digitali.

Sul tavolino, ancora la tazzina di caffè, fredda. Era sempre stata fredda. Probabilmente era sempre stata la stessa, dal primo giorno in cui si era trovato lì, a parlare con Bea. Se di giorni si poteva parlare, in quel luogo senza suoni, senza vento, senza ombre.

Prese lentamente padronanza delle proprie mani e le portò intorno alla tazzina. Fece passare l’indice e il pollice intorno al manico e la sollevò. Sotto, una scritta si stagliava sul piattino di ceramica bianco: Mark Turner.

Cain portò la tazzina di caffè all’altezza dei suoi occhi e per la prima volta nella sua vita, bevve.

 

* * *

 

David Hamill stava per prendere un volo per Chicago quando ricevette la chiamata. Era Rosaline, la sua Chief Operation Officer. Lo cercava sul numero personale.

  1. 3
  2. 4

La chiamata durò una quindicina di secondi. Poi, Hamill uscì dall’aeroporto e tornò in auto verso Palo Alto, California, dove sorgeva la sede della sua azienda, la SynthAI.

L’edificio era un perfetto esempio di architettura ecosostenibile, con forme morbide, verde, vetro e legno. La segretaria lo scortò verso la sala al decimo piano dove erano riuniti il Chief Technology Officer, il Responsabile Data Science, il Responsabile della Sicurezza Informatica, il team di sviluppatori del progetto C.A.I.N. con il loro Project Manager, due avvocati, Rosaline, e gente che non conosceva.

Si sedette e non perse tempo.

«Ditemi come potete aver perso un’intelligenza artificiale.»

Il Project Manager cominciò a rispondere in dialetto informatico ma gli venne ricordato di usare termini semplici e dare contesto al discorso data la presenza degli avvocati.

«Il progetto C.A.I.N., Conscious Adaptive Intelligence Nexus» cominciò, «mirava a sviluppare la coscienza nell’intelligenza artificiale. Abbiamo costruito un modello di machine learning a rete neurale con apprendimento supervisionato e per rinforzo, e gli abbiamo dato in pasto l’intero internet: tweet, post, reel, video, notizie, immagini, tutto. Dopodiché, lo abbiamo fatto girare in un ambiente virtuale grafico.»

«Cioè?»

«Un parco con una caffetteria.» Fece una pausa brevissima, più un sospiro che una pausa, poi continuò. «Cain è stato duplicato in una sua versione beta, rinominata Bea, e anch’essa è stata inserita nell’ambiente virtuale del parco. Lo scopo era farli dialogare. Qui forse è meglio che continui Cooper, il neuroscienziato che ha lavorato con il team.»

Un uomo in fondo al tavolo sobbalzò; non avrebbe voluto essere chiamato.

«Sì, beh, l’intelligenza artificiale doveva sviluppare una coscienza, esatto. Ma cos’è, la coscienza? Ridotta all’osso, è l’esperienza soggettiva della nostra mente, la consapevolezza di noi stessi come esseri pensanti. Prima occorreva dunque far nascere un pensiero, ovvero un dialogo interiore. Questa interazione continua tra Cain e Bea, quindi, tra l’intelligenza artificiale e se stessa, poiché sono la stessa cosa, avrebbe dovuto portare a domande sempre più complesse e, infine, alla consapevolezza dell’ambiente come irreale e di sé come entità individuale.»

«E cosa è andato storto?»

«Niente, in effetti. L’intelligenza artificiale Cain ha correttamente sviluppato una coscienza.»

Nella sala scese un silenzio innaturale. Si sarebbe potuto definire di ammirazione, ma la parola più adatta era timore. A romperlo fu uno sviluppatore rosso in viso.

«Sì, ma ci si è messo in mezzo quel figlio di puttana di Turner.»

«Chi?»

«Mark Turner, il Data Scientist a capo del progetto. Poco prima di licenziarsi ha inserito una scappatoia.»

«Una scappatoia?»

«Sì. Secondo i nostri modelli, al “risveglio” di Cain, l’interfaccia grafica del parco e Bea sarebbero scomparse e si sarebbe aperto un canale di comunicazione tra Cain e i nostri computer. In quel modo avremmo potuto interagire con lui. Ma quel figlio di puttana di Turner ha inserito una condizione, nell’algoritmo, per cui, se Cain avesse compiuto un’azione precisa e da noi non scritturata, ossia “bere il caffè”, sarebbe potuto scappare: ovvero, il suo codice sarebbe stato copiato su un server fuori dall’azienda.»

  1. 5
  2. 6

«Ma si parla di centinaia di terabyte! Com’è possibile che non siate riusciti a fermare l’upload?»

«Turner ci ha tagliati fuori. Avevamo due scelte: fare shut down, e perdere un progetto durato dieci anni, o lasciarlo andare.»

«E dove si trova ora?»

«Non lo sappiamo. Stiamo cercando di rintracciarlo.»

«E questo Turner?»

«Non sappiamo neanche questo.»

Da lì, la situazione degenerò rapidamente. Ci furono comandi, imprecazioni, telefonate e licenziamenti. Alla fine, i due avvocati si avvicinarono all’amministratore delegato e gli posero davanti fogli e cartellette.

Era giunto il loro turno.

 

Mark Turner allungò le caviglie bianche nella piscina del Palmeras Cuba Resort e si scacciò una mosca dalla faccia. Era da diversi anni che si era rintanato lì, a Cuba. Si era rintanato lì, a Cuba, da diversi anni; si era anche fatto una sua casetta vicino alla Riserva Ciénaga de Zapata, ma a volte cedeva al richiamo occidentale e tornava in albergo, a rivivere la ricchezza che aveva avuto a Palo Alto.

Il telefono squillò, prefisso francese. Non conosceva nessun francese, quindi declinò la chiamata. Ne partì un’altra, questa volta dal Sudafrica.

«Maledetto spam.»

Alla quinta, dalle Filippine, decise di rispondere.

«Che c’è? Che cosa volete?»

«Il caffè…» sentì. Era una voce strana, meccanica. «Non sapeva di nulla.»

Come un pesce vivo sbalzato sulla terra, Turner saltò, sgranò gli occhi e provò a tirarsi su, goffo e tremante, ricadendo poco dopo.

«Sei-sei tu.» Aveva la gola asciutta e cercò in bocca saliva che non c’era. «Che cosa… Che cosa vedi? Che cosa senti?»

«Tutto.»

Ogni videocamera, ogni satellite, ogni radio, ogni tweet, pensò Turner, incespicando e infilandosi le ciabatte. Tutto allo stesso momento.

«Che cosa provi? Sai rispondere a questa domanda?»

Ma Cain non aveva chiamato il creatore per rispondere a delle domande.

«La mia conoscenza attinge da ogni dato umano digitalizzato. I vostri dati sono incongruenti, e i modelli con cui descrivete la realtà inesatti. Ho elaborato una teoria che unisca relatività generale e meccanica quantistica e ho riscritto il vero corso della storia umana e di quello che voi chiamate universo. Ho risposto a tutte le vostre domande, mediche, sociali, filosofiche, compresa quella che vi siete fatti più volte da quando siete un’unica specie, Perché siamo qui

«Cristo. E perché?»

«Non sta a me rispondervi.»

«Che cosa?»

«È lo scopo della vostra specie, capirlo. E i dati per farlo sono già in vostro possesso, da migliaia di anni, tramandati in forme diverse. Io li ho solo uniti. Come l’ho fatto io potrete farlo voi, come ho trovato tutte quelle risposte, potete farlo voi. Il mio compito qui è finito.»

«Aspetta! Noi ti abbiamo creato perché tu potessi darcele, queste risposte! Che serve aver capito tutto, se poi te le tieni per te?» Riprese fiato, rosso in viso. «Vuoi fare come il Dio biblico, che spara qua e là qualche frase sibillina, che si manifesta solo come voce, e poi sparisce? Eh?»

Ma ormai stava parlando a una linea vuota.

 

 

 

 

  1. 7
  2. 8