Sotto di me, persone.
Passano, lontane, incuranti di me, quassù, che le guardo. Passano nei loro colori, passano nelle loro risate. Mi ritrovo a disprezzarle, quelle formiche che camminano senza uno scopo più alto, quelle formiche che non vedono che sto per buttarmi.
Sul ciglio, freddo, ultimo appoggio prima del baratro, mi siedo. I piedi, nudi, penzolano nel vuoto. Il corpo avvertirà l’impatto: è quello, solo quello, a frenarmi.
Frenarmi ma non fermarmi.
Devo buttarmi. Ormai sono salito fin qui. Devo buttarmi anche se quelle persone non mi vedono ora: mi vedranno quando mi sarò lanciato.
Mi alzo in piedi ma le ginocchia mi tremano. Non soffro di vertigini, ma quell’altezza mi palpita direttamente dentro il petto. Dieci metri. L’impatto sarà violento, lo so. Cerco un appoggio con una mano, ma non c’è nessun appoggio. Siamo solo io e il vuoto, davanti a me.
«Aò, e muoviti!».
Mi volto, terrorizzato. Chi ha parlato? Come osa raggiungermi fin qui e violare questo momento? Ma prima ancora di realizzarlo, due mani mi spingono con forza verso l’abisso.
Perdo l’equilibrio, sento staccarsi prima un piede, poi l’altro, inizio ad annaspare nell’aria dibattendo le braccia come un uccello ferito e incapace di volare. Cado, sto cadendo, negli occhi mi rimangono le nubi, negli occhi mi rimane il cielo quasi terso, e poi più nulla. L’acqua della piscina mi inghiotte.