Chantal Lengua

Busserai
sul legno del mondo

La casa sul lago aveva la facciata graffiata dal vento e finestre vuote come orbite di un cranio, ma profumava di cannella ed esponeva a est, verso il sole nascente. Dopo la separazione dei miei, ci andavamo solo d'estate, a tenere compagnia ai grilli e alle carpe, uniche presenze del luogo. Mio fratello James giocava con il terriccio fangoso e mia sorella Lilith si chiudeva sempre in camera. Io tenevo compagnia a mia madre, che passava il tempo a guardare il corso delle nuvole e a sospirare.

La casa le apparteneva da due generazioni e veniva curata, in nostra assenza, da un'amica di famiglia. Aveva quattro camere da letto, tre bagni, una soffitta e un seminterrato, ma di questo spazio monumentale noi occupavamo solo il pianterreno, perennemente sporco dalle impronte fangose di James. Ero scesa in seminterrato solo una volta, quando Lilith mi aveva costretta a uno dei suoi giochi di coraggio, in cui lei si divertiva e io sviluppavo incubi.

Quel giorno sedevo sul dondolo nel patio, quando mia madre, seduta vicino a me, fece un movimento impercettibile con il capo, quasi come se un genio le avesse infuso linfa vitale, attivandola.

«Vai a prendermi quello scatolone in cantina, ti va?».

Non capii a quale alludesse, dato che era stata in silenzio per tutto il tempo, e di scatoloni non se ne era mai parlato. Mi spiegò che conteneva vecchie foto del matrimonio, e mi feci coraggio: non ero più una bambina, e la cantina era una stanza come le altre.

Scesi, trovai lo scatolone e me lo caricai in braccio, quando sentii un suono ritmico, come di nocche su una porta. Scattai su per le scale con il cuore in gola e corsi da mia madre, sperando di essermelo immaginato.

Quella sera, vestita di bianco, lei accese un falò e ci lasciò scivolare le fotografie una dopo l'altra, guardandole arricciarsi come anime tormentate. James si divertiva a buttarci foglie secche e Lilith si pettinava in silenzio. Io non riuscivo a smettere di pensare al suono del seminterrato. Prima di andare a dormire, ebbi l'insana idea di confidarmi con lei, che mi prese in giro, ma il giorno corse in camera mia.

«L'ho sentito anche io», disse. «Sono andata in cantina per prendere qualcosa con cui spaventarti e l'ho sentito».

Pensai mi stesse prendendo in giro, ma il viso arrossato e il respiro accelerato non la tradivano. Prendemmo un coltello ciascuna e scendemmo le scale lentamente, quasi aspettandoci un demone convocato dagli inferi, sanguinante sul pavimento di cemento. Ma trovammo solo scatoloni, vecchie scope, secchi, vini. Bussammo alle pareti grigie ma ottenemmo rumori sordi: nessun tunnel nascosto. Lilith sollevò un tappeto facendo sciamare una nube di polvere che mi fece tossire. Nel breve istante in cui chiusi gli occhi, la sentii sobbalzare e urlai anche io senza motivo. Ma un motivo c'era: una porta, uguale alle altre della casa, in legno di noce scuro, si stagliava orizzontale sul pavimento, libera per metà dal tappeto.

Sentimmo bussare: un rumore che mi rimbombò nelle ossa e mi fece schizzare verso le scale, senza neanche pensare a mia sorella. Me la ritrovai comunque dietro, quando chiudemmo la porta della cantina, in lacrime.

«Ho lasciato pure il coltello giù», esclamò piangendo. Corremmo chiamando mia madre e inciampando su noi stesse. James ci disse che era in città a fare la spesa. Si spaventò a vederci così e io gli raccontai tutto, anche se Lilith tentò di edulcorare la storia per non spaventarlo.

Le ore passavano, e mia madre non tornava. A volte si attardava nei negozi, dato che scendeva in città solo una o due volte alla settimana. Divorati dall'ansia e dall'attesa, decidemmo di tornare a prendere i coltelli per non farla arrabbiare. James voleva venire con noi. Lilith prese il fucile da caccia di nostro padre.

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La discesa sulle scale del seminterrato sembrava una di quelle che si vedono in TV, dove uno squadrone FBI si intrufola silenziosamente per fermare un assassino che sta leggendo il giornale. Tensione e calma nella stessa stanza.

Giungemmo con i piedi sul pavimento quando sentimmo lo stesso maledetto suono; Lilith scattò per risalire e James sobbalzò, ma per me fu qualcosa di diverso.

«Mi sembra che sia intrappolato. Forse sta soffrendo», dissi, indicando la porta. Di chi parlavo, non lo sapevo.

«Stiamo venendo a salvarti!», esclamai a gran voce, tremando. La mano che bussava dall'altra parte della porta si fermò, e questo parve darci coraggio. Ci accorgemmo che non c'era un buco della serratura, e che il pomello della maniglia non poteva essere ruotato. C'era un'ascia, poco distante.

«Ehi, puoi sentirci?», domandò Lilith, tenendo James dietro la sua gamba. «Ora sfondiamo la porta, okay?».

«Perché non risponde?», sussurrò mio fratello.

Solo silenzio.

Lilith imbracò l'ascia come un falegname e la tenne a mezz'aria prima di urlare una parolaccia e calarla sul legno, dove rimase conficcata per qualche centimetro. La issò e la buttò sul legno più e più volte, fino a che potemmo inginocchiarci e rimuovere alcuni pezzi della porta. Ma a quel punto: orrore. Dietro la porta c'era un pavimento di cemento, identico a tutto il resto della cantina. Nessuna stanza, neanche pochi centimetri di spazio vuoto. Fu troppo anche per il mutuo coraggio che ci stavamo imponendo vicendevolmente: scappammo di sopra e raccontammo tutto a nostra madre quando rincasò. La portammo nel seminterrato a vedere lo scempio di legno e angoscia, ma fu come se l'avessimo trascinata in lacrime a vedere un bicchiere rotto.

«Non importa. Quella porta evidentemente non serve a niente, chissà quale stupido avo l'ha messa lì". Non credette alle nocche che bussavano, ovviamente. Ma fummo molto fermi nel non voler più tornare nella casa al lago, negli anni a venire.

Crescendo, dimenticai l'accaduto.

Avevo già avuto il mio secondo figlio, Noah, quando mi ritrovai a passare in macchina davanti alla casa che non vedevo da così tanti anni. Chiesi a mio marito di fermarci, e scesi davanti all'imponente mausoleo di legno ed edera: chiunque l'avesse acquistata da mia madre, l'aveva abbandonata ancora più di quanto avessimo fatto noi. Mi avvicinai al giardino e notai che il legno era pieno di muffa e le finestre erano rotte: provai una fitta di angoscia e malinconia. Avanzai tra le sterpaglie diretta verso il lago. Un puzzo di pesce rancido saliva deciso dalle sue acque, torbide e scure, e la vegetazione tutt'intorno appariva diversa, malata.

Tornai in macchina e chiesi a mio marito di fare una deviazione: raggiungemmo la città vicina. Non fu difficile trovare l'abitazione della signora che aveva curato la casa in nostra assenza, anni prima. Era molto anziana, ma mi riconobbe. Mi puntò contro un dito ossuto, crivellandomi lo sterno.

«Come osi, tu, mettere piede in questa città, dopo quello che hai fatto? Sciagura a te!».

Rimasi di sasso, pensando mi avesse scambiata per un'altra persona, ma capii che non era così quando mi resi conto che gli abitanti del paese sputavano a terra e si facevano il segno della croce al mio passaggio. E ovunque, intanto, la vegetazione era marcia, l'asfalto incrinato, le case crepate, le persone malate. Sembrava che una maledizione si fosse abbattuta sulla città. Tornai nella mia casa sfondando la porta dal legno rancido e lasciando in macchina un marito dubbioso e due figli che piangevano. Mi precipitai verso il seminterrato dove tanti anni prima avevamo rotto quella porta.

Laggiù l'odore era nauseante, come quello di centinaia di carcasse in putrefazione. Mi coprii il naso con la manica e avanzai con una mano davanti al corpo come se l'olezzo fosse una barriera fisicamente percepibile. E, infine, la vidi: piccoli pezzi di legno contornavano una voragine infinita, là dove un tempo c'era solo duro cemento. Mi sporsi e non riuscii a vederne il fondo: c'era solo nero, nero per centinaia di metri, forse fino al centro della terra. Presi una bottiglia pesante e la gettai nel buco orrendo, rimanendo in attesa. Ma non sentii nessun tonfo, nemmeno dopo interi minuti di attesa.

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Scappai via come quel giorno da bambina, tornando in macchina e serrando denti, occhi e pugni. Tom tentò di rassicurarmi, pensando fossi solo presa da tristezze d'infanzia, e rincuorò i nostri figli. Guidammo verso la nostra meta, una località al mare dove trascorrere le vacanze. Ma non passarono pochi giorni che cominciai a tossire, e a Noah venne la febbre alta. Mio marito mi avvertì che avevamo perso molti soldi per speculazioni finanziarie, mia figlia fu lasciata dal fidanzato. Un anno dopo perdemmo il piccolo Noah, divorziammo, i medici mi diedero pochi mesi di vita per una rara malattia. E mi sembrò di stare contagiando chi mi stava vicino: colleghi che si ammalavano, amici che si rovinavano, conoscenti che morivano. Troppi.

A poche settimane di distanza dalla morte prefissata dai miei medici, decisi di tornare alla casa al lago e porre fine a tutto. Scesi nel seminterrato, ancora deserto, ancora rancido rifugio di morte e devastazione, e mi parai in piedi dritta davanti all'abisso.

Io avevo cominciato tutto, io lo avrei finito.

Feci un passo verso l'orrendo buco fetido e infinito, e mi lasciai cadere.

Caddi per ore, forse giorni. Sentivo i capelli vorticare nell'aria sopra di me, tenevo le braccia in alto con le mani che si agitavano per la velocità. Dibattevo le gambe senza sosta, senza fine, fino a che, inspiegabilmente, mi sentii rallentare, come se la forza di gravità sfuggisse ai suoi vincoli naturali. Mi trovai ad appoggiare lentamente i piedi su un pavimento sordo, e intorno a me le strettissime pareti del buco in cui ero caduta mi imprigionavano in un metro quadrato di spazio. Sopra di me, solo nero, per chilometri: era la colonna di buio che avevo attraversato cadendo.

Non riuscivo a vedere nulla. Mi abbassai e tastai il pavimento: sentii delle rifiniture, delle intarsiature, e una specie di cipolla metallica. Sobbalzai. Era un pomello. Era una porta. Una porta come quella che avevo trovato da bambina, ma dall'altra parte del mondo. E questa volta ero io a esserne dietro.

Urlai con quanto fiato avevo in gola e mi lasciai cadere sulle gambe, ma non c'era spazio neanche per crollare a terra: potevo, al massimo, rimanere seduta con le gambe incrociate. Ma non avrei bussato.

Oh no, non avrei bussato. Non avrei scatenato questa maledizione infernale su un'altra città, su altre persone.

Rimasi lì, in attesa di morire di fame.

Ma ciò non successe. Rimasi sempre uguale, senza il bisogno di bere, mangiare, pisciare. Come se non fossi più un corpo umano, ma un'anima torturata. Avrei potuto affrontare così l'infinità? Avrei preferito salvare me stessa e uscire da quell'inferno, oppure risparmiare migliaia di persone?

Era una prova. E io volevo la seconda, ovviamente.

Ci provai. Tentai il possibile. Ma un'infinità è un'infinità, e anche se il mio corpo non era più umano, la mente lo era.

Mi abbassai e serrai il pugno. Deglutii, ma senza più saliva.

E bussai.

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