Cominciai a sentirmi male con l’arrivo della primavera. Niente che fosse legato al polline o al cambio di stagione. Semplicemente, non dormivo. Mi sdraiavo e pregavo Iddio e quanti fossero lassù in cielo, pure gli antenati sciagurati che mi avevano fatto nascere senza un quattrino, chiedendo loro di farmi addormentare, ma niente. Il primo effetto dell’insonnia fu il mal di testa, lancinante, a tutte le ore. Poi affaticamento, borse sotto gli occhi, irritabilità, stress, inappetenza.
«La situazione è grave», fece il medico. «E come se non bastasse, i suoi esami sono ottimali. Elettrocardiogramma stabile, assenza di apnea ostruttiva, epilessia, disturbi di ansia, depressione o stress post-traumatico. E non prende farmaci, conduce uno stile di vita sano, senza viaggi o trasferte. Non ha il morbo di Parkinson… e chiaramente non è in menopausa».
«Di quello sono abbastanza sicuro».
«Vediamo… caffeina, tabacco, alcool, stimolanti?».
«Pur di dormire ho smesso tutto».
«E di cosa si occupa?».
«Scuole medie. Insegno».
«Ah, quindi non un lavoro stressante, ecco».
«Riunisca trenta adolescenti in una stanza e poi ne riparliamo».
Ne girai tanti, di dottori come quello. Guardavano le analisi, mi mandavano a fare altri esami, controllavano i valori e alla fine si limitavano a fissarmi nelle palle degli occhi come trote di fiume. Mi sfogai con i colleghi e con i genitori degli alunni. Ero disposto a tutto pur di riuscire a superare la mezz’ora di sonno che riuscivo a strappare ogni notte a quell’avaro di Morfeo.
«Sa, professore, ci sarebbe un modo», disse un giorno una madre. «C’è un medico alternativo, un dottore un po’ particolare, in grado di curare qualsiasi cosa. Tuttavia, accetta solo clienti fidati e sotto invito».
«Sono disposto a tutto. Mi dica cosa devo fare».
Recuperò un biglietto da visita dal fondo della borsetta ma poi rimase lì, stringendoselo tra le dita, come timorata di Dio.
«Sa, dandole questo numero io rischio molto».
Voleva che la corrompessi? Che razza di medico era, questo, uno sciamano? Mi guardai intorno: mi trovavo ancora all’interno delle mura scolastiche e non mi parve lecito allungarle un centone strisciante come Al Capone a un poliziotto in busta paga. Ma ero disperato, e così feci.
Più avanti quel giorno telefonai al numero in sovrimpressione sul cartoncino. Nessun nome a fianco. La linea suonò libera, poi qualcuno riagganciò. Subito mi arrivò un messaggio contenente un indirizzo e un’ora. Un appuntamento.