Chantal Lengua

Charles, Charles, Charles

Cominciai a sentirmi male con l’arrivo della primavera. Niente che fosse legato al polline o al cambio di stagione. Semplicemente, non dormivo. Mi sdraiavo e pregavo Iddio e quanti fossero lassù in cielo, pure gli antenati sciagurati che mi avevano fatto nascere senza un quattrino, chiedendo loro di farmi addormentare, ma niente. Il primo effetto dell’insonnia fu il mal di testa, lancinante, a tutte le ore. Poi affaticamento, borse sotto gli occhi, irritabilità, stress, inappetenza.

«La situazione è grave», fece il medico. «E come se non bastasse, i suoi esami sono ottimali. Elettrocardiogramma stabile, assenza di apnea ostruttiva, epilessia, disturbi di ansia, depressione o stress post-traumatico. E non prende farmaci, conduce uno stile di vita sano, senza viaggi o trasferte. Non ha il morbo di Parkinson… e chiaramente non è in menopausa».

«Di quello sono abbastanza sicuro».

«Vediamo… caffeina, tabacco, alcool, stimolanti?».

«Pur di dormire ho smesso tutto».

«E di cosa si occupa?».

«Scuole medie. Insegno».

«Ah, quindi non un lavoro stressante, ecco».

«Riunisca trenta adolescenti in una stanza e poi ne riparliamo».

Ne girai tanti, di dottori come quello. Guardavano le analisi, mi mandavano a fare altri esami, controllavano i valori e alla fine si limitavano a fissarmi nelle palle degli occhi come trote di fiume. Mi sfogai con i colleghi e con i genitori degli alunni. Ero disposto a tutto pur di riuscire a superare la mezz’ora di sonno che riuscivo a strappare ogni notte a quell’avaro di Morfeo.

«Sa, professore, ci sarebbe un modo», disse un giorno una madre. «C’è un medico alternativo, un dottore un po’ particolare, in grado di curare qualsiasi cosa. Tuttavia, accetta solo clienti fidati e sotto invito».

«Sono disposto a tutto. Mi dica cosa devo fare».

Recuperò un biglietto da visita dal fondo della borsetta ma poi rimase lì, stringendoselo tra le dita, come timorata di Dio.

«Sa, dandole questo numero io rischio molto».

Voleva che la corrompessi? Che razza di medico era, questo, uno sciamano? Mi guardai intorno: mi trovavo ancora all’interno delle mura scolastiche e non mi parve lecito allungarle un centone strisciante come Al Capone a un poliziotto in busta paga. Ma ero disperato, e così feci.

Più avanti quel giorno telefonai al numero in sovrimpressione sul cartoncino. Nessun nome a fianco. La linea suonò libera, poi qualcuno riagganciò. Subito mi arrivò un messaggio contenente un indirizzo e un’ora. Un appuntamento.

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I giorni che mi separavano dall’incontro mi gonfiarono di irrequietezza, e via via che le notti si facevano sempre più smunte, anche il mio viso si scarnava. Raggiunsi lo studio del dottore con tre chili in meno e una camicia che mi stava larga. Il portafoglio, in compenso, era gravido: non sapevo quanto avrei dovuto sganciare a un medico circondato da una tale aurea di esclusività.

L’edificio era del secolo precedente, con mattoni a vista e infissi rovinati. Entrai e salii le scale più e più volte: non c’erano né nomi né campanelli. Alla terza salita-e-discesa intravidi una piccola croce sul legno di una porta e lo interpretai come il segno che stavo cercando. Bussai e mi accolse un omino minuto, dalla testa come un uovo e le mani che si sfregavano tra loro come dotate di vita propria. Senza neanche presentarsi, mi fece cenno di accomodarmi su un lettino poco dietro. Mi fece qualche domanda, mentre io mi guardavo intorno vagamente perplesso e mi chiedevo perché mi fossi fidato di quella donna che neanche conoscevo. Insomma, quell’uomo lavorava chiaramente in nero. Un malcelato accento della penisola arabica, poi, non mi confortava per niente.

«Ah sì, sì. Ho capito cos’ha».

«Cos’ho? Mi dica cos’ho, la prego».

«Questo è un chiaro esempio di insomnia nominalis».

«Insomnia che?».

«Nominalis. È latino», mi disse, con l'aria di uno che la sapeva lunga.

«Ho capito dotto’ ma che vuol dire?».

«Mi dica, lei quante volte al giorno sente pronunciare il suo nome?».

«Guardi, io non capisco».

«Ma è semplice, risponda alla domanda».

«Beh, tutti a scuola, per esempio. O anche…».

«Ma a scuola usano il suo nome proprio?».

«No, mi chiamano professor Monroe».

«E i ragazzi?».

«Professor Monroe».

«E i colleghi?».

«Chuck».

«E lei si chiama Chuck?».

«No, mi chiamo Charles».

«E i suoi genitori come la chiamano?».

«Charlie».

«E sua moglie?».

«Non ho una moglie».

«Fidanzata?».

«Neanche».

«E allora vede, il problema è chiaro. Nessuno usa il suo nome da anni. È un caso lampante di insomnia nominalis».

Mi fece uscire senza chiedermi un dollaro, dicendomi che mi avrebbe mandato la fattura a casa. Di certo, dopo una sentenza così fraudolenta, non lo avrei pagato un solo centesimo. Avrei quasi preferito una lettura di tarocchi: il valore scientifico sarebbe stato lo stesso e mi sarei divertito di più. Ebbe perfino l’ardire di consigliarmi di ripetermi il mio nome più volte nel corso della giornata, di registrarmi addirittura, e di chiedere ad amici e pareti di non usare soprannomi ma sempre e solo il mio nome completo, “Charles”.

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Tornato a casa, sprofondai nell’abisso più cupo. Mangiai un petto di pollo malamente riscaldato e corressi le verifiche di matematica di quei disgraziati dei miei alunni. Mi coricai con la luna e mi rialzai con il sole, senza che i miei occhi avessero trovato pace. Passai un’altra settimana così. Poi un giorno non ce la feci più.

«Simon, posso chiederti un favore?».

«Certo, Chuck, dimmi».

«Non è che potresti chiamarmi Charles?».

«Ti ho offeso, per caso? Ho detto qualcosa che non avrei dovuto dire?».

«No, è che… non lo so, preferisco così. Nessuno usa mai il mio nome. Il mio nome per intero, cioè».

«Come vuoi, Chuck. Anzi, Charles».

Fu un miracolo, quella sera, quando persi conoscenza tra le tre e le quattro del mattino. Ero riuscito ad addormentarmi, anche se per poco. Timidamente, mentre facevo colazione, tra un cucchiaino di latte e l’altro, il giorno dopo provai a ripetermelo: “Charles, Charles, Charles”. Mi sentii un idiota. Ma funzionò. Allargai l’iniziativa dal mio amico Simon ai miei genitori, e poi dai colleghi ai ragazzi, che furono ben lieti di usare il mio nome al posto dell’istituzionale “professor Monroe”.

Risolvetti completamente il problema dell’insonnia nel giro di poche settimane. Provai a telefonare al dottore per ringraziarlo ma non lo trovai. Decisi di recarmi personalmente al suo studio. L’edificio era, se possibile, ancora più polveroso della volta precedente. Bussai due volte e mi aprì un uomo vestito con una casacca gialla fosforescente e un elmetto. Pareva un operaio.

«Sto cercando il dottore».

«Quale dottore?».

«C’era uno studio, qui. Uno studio medico. Ci sono stato un mese fa».

«Impossibile. Questo edificio è di proprietà della Suntrust Bank. Stiamo facendo lavori di ristrutturazione da almeno sei mesi».

Rimasi lì, trafelato e boccheggiante come un merluzzo. Fui invitato ad andarmene: non potevo stare lì, con i lavori in corso. A casa, contattai la signora che mi aveva dato il numero del medico, ma anche lei affermò che, una volta risolto il suo problema, non era più riuscita a contattarlo. Come se si occupasse di un solo malanno per cliente.

Qualche mese dopo mi arrivò una lettera stampata a macchina. Una richiesta di pagamento. La lessi due volte ma non trovai nessuna somma. E, a dirla tutta, neanche un conto a cui inviare i soldi. C’era solo scritto che la consulenza medica sarebbe stata saldata “alla fine”. Ridacchiai. Alla fine di cosa? Della vita? Ridacchiai di nuovo. Quel dottore aveva proprio un bel senso dell’umorismo. Pareva quasi che gli avessi venduto l’anima. Ma sicuramente faceva tutto parte di quell’aurea di mistero e di esclusività su cui fondava il suo servizio.

Vero?

 

 

 

 

 

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