Chantal Lengua

Latte

La vidi seduta su una sedia, lunga, nel suo abito nero. Non le chiesi neanche chi fosse, lo sentii dentro. Appoggiai la valigetta a terra, chiusi la porta e mi tolsi l’impermeabile.

«Beh… sono morto?».

«No».

«E allora che ci fai qui?».

«T'è morto il gatto».

«E come?».

«Come non lo so».

Lo vidi a terra, il gatto. Pareva dormisse.

«Oh. Ha sofferto?».

«Non lo so».

Ci fu un attimo di imbarazzo. Io ispezionavo l’interno del suo cappuccio, ma era come fissare un buco nero. E lei, la Morte, se ne stava lì immobile, seduta, con il capo leggermente reclinato verso il basso.

«E quindi?», feci.

«Quindi cosa?».

«Non dovresti, non lo so, andare? Portare Oscar in un posto migliore?».

«Chi è Oscar?».

«Il gatto».

«Ah».

Ci fu un’altra pausa.

«Allora?», la spronai.

«Mi prendo un attimo. Mi piace qua. Mi sento a casa».

L’idea che la mia casa facesse sentire la Morte a casa mi lasciò interdetto, ma mia madre, canadese, mi aveva insegnato il valore dell’ospitalità, così non battei ciglio.

«Prenditi il tempo necessario. Posso offrirti qualcosa?».

«Latte».

«Caldo o freddo?».

Non rispose. Glielo portai tiepido.

Spostai la valigetta in camera e quando tornai in cucina il bicchiere era già vuoto. Come l’avesse bevuto rimase un mistero, ma non mi feci domande. Me ne venivo da un turno di dodi-ci ore e riuscivo a pensare solo al letto. Andai a dormire senza sapere se la Morte fosse ancora lì in cucina, con un bicchiere opaco a fianco.

Il giorno dopo mi presi del tempo per andare a seppellire Oscar. Non parlai a nessuno della mia esperienza, per non essere preso per pazzo, ma nel corso dei giorni seguenti, prima occasionalmente e poi sempre più spesso, lei tornò a farmi visita. Me la ritrovai in casa dopo la spesa o prima di andare in banca. Dapprima solo in cucina, poi cominciò a scivolare per le altre stanze. Una sera si piazzò curiosamente dentro la vasca da bagno e dovetti usare il gabinetto del vicino. Era diventata una presenza strana ma rassicurante. Di poche parole, soprattutto. Una sorta di figlio adolescente che andava e veniva quando voleva e non padroneggiava l’arte di adoperare più di tre parole per frase.

La vera sorpresa fu quando, un giorno, me la ritrovai con altre due compagne, tutte silenziosamente sedute intorno al tavolo della cucina come se stessero giocando a carte senza carte.

Scoprii che non c’era una sola Morte, ma tante, più di quante immaginassi. O meglio, erano tutte la stessa Morte, ma in qualche modo diversa. Non capii come. Semplicemente, cominciai preparando tre bicchieri di latte, poi sempre di più. A volte capitavo in mezzo a veri e propri raduni: entravo in casa e mi trovavo una decina di lunghe figure incappucciate, sparse come giocattoli in disordine. E allora che facevo? Sospiravo e chiedevo chi preferisse latte con cannella, chi con cacao e chi con vaniglia.

La situazione divenne caotica quando cominciai a frequentare una ragazza di Charleston, un focoso ciclone di energia che ben presto iniziò a domandarmi perché non l’avessi ancora portata a casa. E cosa avrei potuto dirle? Che ospitavo il Coachella dell’Aldilà? D’altra parte, non potevo neanche dire alla Morte di andarsene. E se l’avesse presa male? Era pur sempre la Morte, per diamine.

La situazione era spinosa: cercai risposta su Google, ma trovai solo erbe e preghiere contro il malocchio. Comunque, un rametto di artemisia ce lo misi lo stesso, sotto al cuscino. Ma le Morti restavano, quiete e silenziose.

Una sera mi presi coraggio e andai dritto verso la mia, quella che era comparsa per prima.

  1. 1
  2. 2

«Senti, mi dispiace ma dovete andarvene».

«Capisco», disse.

«Cioè, stare con voi è stato un privilegio, davvero. Siete sempre state meravigliose, o meravigliosi, non so bene come dire, però…», ma nel tempo in cui abbassai lo sguardo, scomparvero. Nessun rumore, sussurro o strascico di vesti. Tutto d’un tratto, la casa mi parve orribilmente vuota. Passai qualche mesto giorno di elaborazione, e infine mi decisi a invitare la ragazza di Charleston.

Mi scaricò tre settimane dopo.

In un impeto di disperazione le urlai che, per lei, avevo scacciato di casa la Morte. Mi diede del pazzo.

Cominciai a passare intere giornate sulla sedia della cucina che usava la mia Morte. Pensavo alla pace che regnava quando lei e le compagne scivolavano lentamente da una stanza all’altra, alla consapevolezza, alla calma che portavano, come se tra loro vibrasse qualcosa di infinito. Pensavo al suo rifiuto di rispondere a tutto ciò che riguardasse l’aldilà, come se non avesse voluto spiegare a un bambino cose che non avrebbe potuto capire.

Cominciai a fare strani riti per attirarla. Cominciai, lo ammetto, a girare per cimiteri, in strane ore della notte. Mi presi solo una polmonite e un richiamo del guardiano. Schiacciai una zanzara tra le mani e rimasi in attesa che lei tornasse. Mi sentii idiota, a fissare un insetto stecchito con le palpitazioni.

Le settimane si fecero mesi. I mesi si fecero anni. Andai ad abitare in periferia insieme a una donna di nome Dorothy e misi in affitto l’appartamento in cui le Morti avevano bevuto latte parzialmente scremato. Dorothy rimase incinta di due gemelli e comprammo un fox terrier, cieco da un occhio ma che faceva le feste tre volte al giorno. Vivevo una vita felice. Ero felice, ma incompleto. Non dimenticavo il profumo delle vesti delle Morti, che sapeva di pioggia, di terra bagnata, di universo. Non dimenticavo la loro voce, che voce non era, ma risuonava nella mente senza rumore.

Diventai nonno. Andai in pensione. Dorothy sfornava una torta diversa ogni domenica. La baciavo sulla fronte come si fa con i bambini. I nostri figli vivevano in città.

Ben presto, tuttavia, la situazione sfuggì di mano.

Mi accorsi che qualcosa non andava quando, a novant’anni, giravo in bicicletta, mentre Dorothy cominciava a dimenticare chi fosse. Festeggiai il mio centesimo compleanno senza di lei. Da cento si fecero centodieci. A centoventi fui intervistato dalla CBN, dalla ABC News e dalla FOX. Mi chiedevano il segreto per la longevità. Io non lo sapevo. Onestamente, mangiavo cheeseburger ogni sabato e mi facevo anche il Taco Tuesday. Ed ero un po’ stufo di essere vivo. Ero rimasto solo. Ormai ero una presenza fissa ai funerali della città, di amici e parenti. E lì cercavo sempre la mia Morte, tra le panche, ma non la vedevo mai. Era come se si fosse dimenticata di me, come se mi stesse evitando.

A centotrent’anni decisi di suicidarmi. Vi prego di non giudicarmi: avreste fatto lo stesso, se fosse stati al mio posto. Issai un cappio oltre un ramo di magnolia, ma si ruppe il ramo. Lo issai allora oltre la trave di metallo del seminterrato, ma si ruppe il cappio. Mi fermai sulle rotaie della periferia, ma indissero lo sciopero dei treni. Riprovai il giorno seguente, e fu lo stesso. Acquistai una pistola e poi una seconda, per sicurezza, ma mi esplosero entrambe in mano. Una aveva il caricatore difettoso, per l’altra fu un problema di proiettili. Le riportai indietro e il negoziante mi disse che non gli era mai successa una cosa simile. Feci per buttarmi dal Golden Gate ma c’era già un impiegato di banca lì pronto, e passai tutto il tempo a convincere lui a non buttarsi. E poi che potevo fare, buttarmi io? Ci sarebbe rimasto male.

  1. 3
  2. 4

Mi arresi e passai le giornate seduto sul patio del mio giardino, io, relitto di un mondo ormai ultra-tecnologico e meta di pellegrinaggi New Age di gente che cercava di carpire il mio segreto di giovinezza.

Una sera di agosto guardavo le lucciole inseguirsi e disegnare arabeschi pulsanti nel crepuscolo. Suonò il telefono. Mi giunse la voce elettronica e trafelata di una delle tante studentesse che si erano avvicendate nell’affitto nel mio vecchio appartamento. Farneticava a proposito di un uomo vestito di nero, alto, nella sua cucina. Piangeva.

Mi precipitai nel mio vecchio quartiere e schizzai fino al primo piano. Spalancai la porta e la vidi. Era lei, la Morte, seduta sulla solita sedia di legno scheggiato.

«Sei tornata», esclamai, ansimando. «È tutta... è tutta la vita che ti aspetto. Perché mi hai abbandonato? Perché non mi hai permesso di morire?».

Lei non rispose, così mi prostrai ai suoi piedi, citando uno dopo l’altro i nomi dei cari che erano morti prima di me, i miei tentativi di suicidio, tutto.

«C’è stato un errore», ammise infine.

«Come, un errore?».

Mi disse che avrebbe dovuto prendermi un certo Azrael, che si occupava di questo distretto geografico, settore Umani, reparto Maschi, ma che allo scoccare della mia ora non se l’era sentita, per via del latte al cacao con due zollette di zucchero che gli avevo portato più volte. Aveva quindi rifilato l’ingrato compito alla collega Ecate, ma no, lei no, era quella del latte con tè matcha, figuriamoci. Da lì la catena era andata avanti, ma ognuno dei traghettatori era stato mio ospite almeno una volta e così, nel tempo, la sequela si era un po’ persa.

«E tu? Non potevi venirmi a prendere tu?».

«Io mi occupo di gatti».

«Ah».

«Ognuno muore nove volte».

«No, no, capisco. Impegnativo». Ci fu una pausa, lunga. «E ora che si fa?».

«Ormai tutti sono stati riallocati e i contratti rinnovati».

«Ma come? Non può prendermi nessuno?».

«No».

«Ehi, aspetta. Non scherzare. Mi rifiuto di vivere per sempre. Ci dev’essere un modo».

Fu allora che mi indicò un fagotto, qualcosa di nero. Mi avvicinai. Era una tunica, liscissima. Riconobbi l’odore ultraterreno, l’odore di infinito. La srotolai. Era della mia misura.

«Non sono sicuro di essere in grado di mietere anime».

«Noi non mietiamo. Noi spostiamo».

«Spostate cosa?».

«Ogni morte corrisponde a una vita».

Non capii granché. Ma se c’era una cosa di cui ero sicuro era che non volevo vivere per sempre.

«E, senti, ma in che distretto andrò?».

«Pappagalli».

«Pappagalli… Ma c’è almeno uno stipendio, un contratto?».

Percepii nell’aria che la stavo innervosendo, così mi diedi una mossa. Infilai il braccio in una manica, poi l’altro. Tirai su il cappuccio. E fu come se venissi risucchiato. D’un tratto, non ci fui più. D’un tratto, capii cosa avrei dovuto fare.

E mi misi al lavoro.

  1. 5
  2. 6