Chantal Lengua

Mr. X

La sua arte disgustava le masse ma ammaliava certi palloni gonfiati che se la accaparravano a suon di milioni. Andai a una sua mostra sperando finalmente di finire in una delle due schiere: avevo bisogno di vedere, prima di decidere.

L’installazione si trovava al pian terreno di un edificio a Soho; l’aveva curata una donna che conoscevo ma che speravo di non incontrare. All’interno, mi accolsero tre topi bianchi con gorgiera, il colletto pieghettato bianco tipico del Seicento, innaturalmente tenuti in piedi e, presumo, imbalsamati. Più avanti, un manichino bianco cosparso di funghi, alcuni in stucco e altri, forse, veri. Poco lontano un uomo vivo, un performer, sedeva su una sedia al centro di una sala con un’enorme falena grigia ancorata sul dorso. Teneva il viso tra le mani, e respirava immobile. Faceva parte della mostra. Vidi altro – una rapa deforme, un gufo senza occhi e con ciliegie al loro posto, ibridi coleotteri-corvi – e mi bastò per posizionarmi tra la schiera di chi non amava l’arte di Mr. X, anzi, ne usciva disgustato.

«Che ne pensa?».

Mi voltai verso chi aveva parlato. Una donna, sulla quarantina, dai lineamenti fini e il collo troppo lungo.

«Onestamente? Mi pare una barbarie. Questo Mr. X prende la natura e la deforma, ridicolizzandola o portandola all’assurdo in modo stomachevole. Fa dell’orrido il suo manifesto e non se ne capisce neanche il senso».

«Il senso… Il senso è che tutto questo è assurdo. Assurda è la condizione umana», disse indicando il performer ancora seduto «E quella animale», continuò indicando l’opera davanti a sé: un gallo dal becco aperto, che aveva appena deposto come uovo una testa di volpe dalle orecchie macabramente cucite sul muso.

«Dico solo che non mi piace. Già altri artisti hanno parlato di assurdo… Oppenheim, Klein, De Chirico, Cheval, ma ognuno aveva qualcosa da aggiungere. Ogni loro opera aveva una ragione di esistere, non come quell’oca tagliata a metà e poggiata su un carro. Gesù».

«Perché è venuto qui, oggi, all’inaugurazione, se questo tipo di arte non le piace?».

«Volevo vedere cosa porta Mr. X a tanta notorietà. A quanto pare è solo moda».

La donna non rispose. Si abbassò all’altezza del gallo e lo fissò in quegli occhi di vetro sbarrati, rimanendo così per diversi minuti. Mi allontanai e cercai l’uscita. Il sole di New York mi rinfrancò e fu un sollievo rivedere le auto che sfrecciavano sull’asfalto. Tornai a casa e Michelle mi saltellò incontro, chiedendomi come fosse andata.

«Uno schifo, sanguinante e stomachevole».

Guardammo un film con Ben Stiller e facemmo sesso. Addormentandomi, tornai a pensare agli occhi di quel gallo e mi rivoltai nelle coperte.

Mi alzai alle sei e andai al parco Riverside per la mia corsa mattutina lungo l’Hudson. Come sempre, ascoltavo i podcast di Jordan Peterson, quel giorno sull’intervista al candidato presidenziale Vivek Ramaswamy. Mi guardavo intorno senza prestare attenzione, la mia mente cablata a quelle due voci maschili. Vidi un cigno, un altro runner, e un ramo a terra. Ma mi voltai di scatto a rivedere il cigno: aveva due grossi bottoni neri al posto degli occhi. Mi avvicinai e gli scattai una foto. Li aveva anche nella foto. Cazzo. A quell’ora non c’era nessuno a cui potessi chiedere spiegazioni: il runner era già distante, e il cigno si allontanò indisturbato. La inviai a qualche contatto. Mi risposero che era un cigno normalissimo.

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La mostrai ai colleghi in azienda: stessa cosa. Anche Michelle, a sera, mi disse che forse ero stressato. No, non ero stressato. Vedevo dei bottoni là dove gli altri vedevano occhi. Andai a dormire sentendomi caldo in fronte, mentre lei ci appoggiava una pezza fresca e si sdraiava accanto a me.

La mattina seguente non andai a correre per non incappare in altre stranezze e presi il solito caffè sotto casa, dove Marlon sapeva la giusta dose di latte (poco) e zucchero (zero). Ma quando lo sorseggiai camminando verso la metropolitana, sentii un sapore lacustre e sollevai il tappo: due rane ci nuotavano dentro, grigie come topi e con una lunga coda innaturale. Urlai e scaraventai a terra il bicchiere, tuffandomi nella metro con il cuore in gola. Mi sedetti sul sedile di plastica e affondai il viso nelle mani. Dovevo stare calmo. Dovevo stare calmo. Ma sentii qualcosa appoggiarsi sulla mia schiena, e da lì risalire sulla spalla. Sapevo già che cos’era: avevo già riconosciuto lo zampettìo orrendo. Spazzai via la falena dimenandomi come un ossesso e lanciandola contro gli altri all’interno del vagone, ma mi accorsi con orrore che non erano persone umane. Era una cacofonia di creature boschive, ibridi tra uomini, animali e oggetti, tutti con gli occhi puntati su di me.

«Adesso la vedi anche tu, l’assurdità della vita?».

Mi girai di scatto, brandendo il telefono, unico oggetto che avevo in mano, come una spada.

Rividi la stessa donna della galleria, alta e pulita, dai capelli corvini ritagliati in un caschetto e gli occhi luminosi.

«Che cazzo sta succedendo? Chi cazzo sei tu, cosa vuoi da me?».

«Voglio solo che tutti se ne accorgono. Che tu te ne accorga».

«Di cosa?», urlai. Un cerbiatto poco lontano starnutì come un boscaiolo e un pesce gli porse un fazzoletto.

«Che non esiste il concetto di normale».

«E allora? Che cazzo me ne frega?».

«Hai mai letto Herman Hesse?»

«Gesù Cristo», esclamai io. I secondi prima della fermata successiva gocciolavano lenti ed io ero terrorizzato.

«“In natura non esiste nulla di così perfido, selvaggio e crudele come la gente normale”», disse la donna, accarezzandolo una pianta seduta con le gambe accavallate. «È questo che voglio dire, con la mia arte. Riflettici».

Il vagone si fermò e mi catapultai fuori dalle porte prima che si aprissero completamente. Schizzai verso l’esterno e mi trovai in un quartiere anonimo, dove persone normali conducevano cani normali tra alberi normali. Mi sedetti a terra e mi accorsi di avere gli occhi bagnati. Rimasi lì un po’ di tempo, senza che nessuno venisse a controllare.

Quella donna… era lei l’artista, era lei Mr. X. Chiamai il mio manager, mi presi un giorno di malattia e tornai a casa a piedi. Michelle era già uscita e mi sdraiai sul letto matrimoniale come se mi avessero sparato in fronte. Al computer cercai qualsiasi informazione su Mr. X e giunsi in un forum sulla pagina 7 di Google in cui si menzionavano cose strane, avvenimenti tipo quelli a cui avevo assistito. Parlavano in codice, e mi ci volle un po’ prima di capire pienamente. Contattai diversi utenti ma mi rispose solo uno. Accettò di incontrarmi la mattina seguente, in New Jersey.

Ci ritrovammo in una bettola dalle poltrone sgualcite, dove una brutta donna sulla mezz’età versava caffè da una caraffa più fredda che calda e chiamava tutti “tesoro”. Roland, questo era il nome dell’uomo, mi spiegò che c’era un modo per fermare le visioni: acquistare un’opera di Mr. X.

«Non posso farlo. Costano milioni».

«Okay, ce n’è un altro, ma è più difficile». Mi disse che dovevo abituarmi all’assurdo, immaginare un mondo diverso dalla normalità e crederci, abituarmi al fatto che niente aveva senso, e quindi tutto aveva senso, e che quindi non dovevo fare mai del male, né alle persone, né agli animali, né alle piante.

«È una cazzata New Age, Roland».

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«Senti bello, anche io pensavo fosse una cazzata, quando me l’hanno detta, ma ci ho provato. Funziona. Non nominare l’artista, non portare nessuno alle mostre, testa bassa e diffondi il verbo. La tua vita cambierà».

Smisi quasi subito di convincere le persone a vedere quello che vedevo io per non essere preso per pazzo. Cominciai a condividere i miei spazi con procioni ben vestiti e ficus che mangiavano thai. Provai ad attaccare bottone con qualche creatura, ma non rispondevano mai. Erano gentili, tuttavia: ti aprivano la porta quando passavi, ti raccoglievano un oggetto da terra, ti salutavano con un cenno se passavi spesso di lì.

Roland aveva usato parole come “accettazione”, “consapevolezza”, “assurdità” come spazio vuoto in cui scrivere un’esistenza senza limiti. Ritrovai alcuni di questi concetti in diversi libri, cominciai a fare meditazione. Non partecipai più al gossip selvaggio alla macchinetta del caffè e spensi la TV mentre cenavo. E un giorno smisi perfino di percepire strane tutte quelle creature, e cominciai a trovare strani gli umani e tutto il resto: la calca per entrare nella metro, i litigi davanti al semaforo, le urla, i progetti urgenti, il denaro sempre mancante, la fama, l’ansia, lo stress.

Affittai una casetta di campagna, dove decisi che mi sarei proposto a Michelle.

Era una sera tiepida, dall’aria spugnosa. Si sentiva l’infinito frinire dei grilli. Mi sedetti sul patio, da solo. Una figura alta, vestita di canapa, avanzò dal buio come se da esso venisse plasmata. Mi si avvicinò, si appoggiò sulla sedia di vimini alla mia destra e rimase lì, ad inseguire il silenzio con lo sguardo.

«Ho capito cosa volevi esprimere con la tua arte», le feci.

«È l’arte della vita», rispose lei. «Non è la mia».

«Già».

Non le chiesi null’altro. Avevo già tutte le risposte che mi servivano. La guardai sparire inghiottita dal buio. E la ringraziai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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