Chantal Lengua

Punto a densità infinita

L'autostrada era un nastro d'asfalto sfuggente, i cartelli impressioni di colore e il guard rail morbido come gomma. A quella velocità la realtà si faceva poliforme e nulla era più conosciuto.

John malediva i suoi genitori per avergli dato un nome così comune, lui che possedeva tre aziende, quattro case e un orologio al polso che ne valeva una. Lo guardava continuamente. Era in ritardo. La cena sarebbe iniziata senza di lui, lui che l'aveva organizzata e pagata. Spinse il piede sull'acceleratore. In quel mercoledì pomeriggio d'inverno, l'autostrada era libera e cristallina.

Alla sua sinistra, un treno a un centinaio di metri di distanza si animò come soffiato di nuova vita e abbandonò la banchina di una stazione, avanzando parallelamente a lui. John lo vide con la coda dell'occhio, ridacchiando: stava andando più veloce. Ma il convoglio cominciò ad accelerare macinando il paesaggio brullo e pianeggiante. John appoggiò meglio le mani sul volante e spinse ancora di più la sua Jaguar. Era in testa.

Il telefono squillò e l'assistente vocale pronunciò il nome della moglie, ma lui riagganciò. Era troppo concentrato per rispondere. Il treno cominciava ora a sfrecciare sempre più velocemente ed entro poco lo avrebbe superato. Decise allora di concedere l'ultimo ruggito ai suoi motori prima di cedergli il vantaggio. Premette l'acceleratore ma il navigatore gli segnalò una curva a quattrocento metri. Alla velocità cui stava andando si sarebbe schiantato. Imprecò, trattenne il respiro, frenò con l'accortezza di chi ha il cuore in gola, e imboccò la curva in velocità di sicurezza. Ma aveva calcolato male, e sterzò per non andare a sbattere contro il guard reil, che a duecento chilometri all'ora pareva di gomma ma era sempre d'acciaio. Chiuse gli occhi impattando con l'airbag e il poggiatesta retrostante. Rimase lì, agonizzante, ingoiando aria come se il diaframma gli fosse esploso, e riuscì ad afferrare la maniglia della portiera solo dopo un tempo che gli parve eterno. Quando uscì, instabile ma illeso, si scontrò contro l'orribile visione della Jaguar distrutta. Un boato, poi, e deflagrò in un'esplosione infuocata, immensa, mostruosa.

John si portò le mani nei capelli, urlando e chiamando aiuto. Non c'era nessuno. In lontananza, il treno si era fermato. Solo una persona solcava i campi in sua direzione. John si sbracciò. Era un uomo vestito di blu, con un berretto da macchinista. Dio, sembrava il capo treno. Camminò proprio verso di lui.

«Dobbiamo andare, il treno ripartirà a momenti.»

«Cosa? Mi aiuti!»

«È troppo tardi, signor Brown.»

«Come...?»

L'uomo in uniforme ferroviaria gli indicò qualcosa a terra. John ci mise qualche secondo per identificarlo. Era un corpo, orribilmente lacerato. Vestiva come lui.

Era lui.

Quando si voltò, l'uomo aveva già ripreso a camminare verso il treno, le cui porte, ora le vedeva, erano aperte. Si mise a inseguirlo e a ogni passo di corsa, i dolori dell'incidente sfumavano come vapore. Perfino il crociato che si era rotto sciando non pulsava più.

Il capostazione salì sul treno e si portò il fischietto alla bocca. Gli fece cenno di sbrigarsi.

«Ma dove va? Io non posso salire, io devo andare...»

«Si fidi, non vuole rimanere in questo posto senza un passaggio.»

«Ma la mia macchina, mia moglie...»

L'uomo fischiò tre volte ed entrò. In un impeto di paura immotivata, anche John saltò su. Le porte si chiusero e il treno si rimise in moto.

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Il convoglio era pieno di gente che parlava a bassa voce con i propri vicini, come in un simposio in cui tutti parevano conoscersi.

«Vieni, accomodati» mormorò una ragazza sulla trentina.

«No guarda io scendo alla prossima.»

La sua risata, fresca e chiara, lo prese alla sprovvista.

«Va bene. Intanto, siediti, poi vediamo.»

John si accomodò ma prese a guardare dritto come un automa. Non voleva avere niente a che fare con loro o con quello che stava succedendo. Ma le voci gli arrivavano senza che riuscisse a bloccarle. Parlavano della destinazione. Si intromise.

«Dov'è che stiamo andando? Nel Missouri?»

«La destinazione è diversa per ognuno di noi.»

«Sì, ma il treno dove è diretto?»

«Dove deve andare.»

«Ma dove?»

«Questo dipende da dove deve andare lei.»

«Ma io non devo andare da nessuna parte.»

«Tutti devono andare da qualche parte.»

«Io no. Fatemi scendere!»

Si alzò e cercò le leve d'emergenza per aprire le porte, ma non le trovò. Inserì le dita nelle chiusure e tentò di forzarle ma non si mossero. Fuori sfrecciava il panorama fiorito delle colline del Tennessee, ma era più pallido, più bianco. Un tocco gentile lo riportò a sedersi. Era la ragazza di prima, che profumava di tulipani.

«Lasciati tutto alle spalle. È finita, ormai.»

John era un uomo pragmatico, e la sua mente dovette alla fine fare i conti con la situazione. Si lasciò cadere sul sedile, con il viso tra le mani.

«Sono morto?»

«Sì.»

«Anche tu?»

«Tutti noi.»

Alcune persone si piegarono su di lui, gli diedero una pacca sulla spalla. Sorrisero.

«Ma non siete disperati?»

«A che pro?»

«Non lo so...»

«Doveva andare così.»

«E le vostre famiglie?»

«Doveva andare così.»

John ripensò a sua moglie. Erano sei anni che voleva avere un bambino ma lui aveva sempre rinviato. Prima era troppo impegnato con il master, poi con l'impresa di famiglia, poi con la start-up, infine con le aziende. Ora non gli restava più nulla. Si guardò le mani, il suo reality-check nei sogni lucidi. Erano le sue, erano illese, nemmeno un graffio.

La porta scorrevole del vagone si aprì e il capostazione chiamò alcuni dei passeggeri, invitandoli a spostarsi nei vagoni precedenti. Chiamò anche la ragazza seduta accanto a lui, che rispondeva al nome di Frankie.

«Aspetta, dove vai? Dove andate?»

Lei gli appoggiò una mano sul ginocchio e si alzò, fluida come un'onda marina, seguendo i passeggeri oltre la porta del vagone. John fece per seguirli ma il capostazione lo invitò a tornare al suo posto.

«Non ancora.»

La sua voce, ultraterrena, ferrea ma gentile, lo fece ritirare con la coda tra le gambe. Si rivolse allora a un uomo alla sua sinistra, sarcastico.

«È così, quindi, l'Aldilà? Uno stupido treno?»

«È una rappresentazione familiare del tuo passaggio. Ognuno la immagina in maniera diversa.»

«Che significa?»

«Sei morto, e il tuo corpo è rimasto nel mondo. Nel processo in cui la tua anima si prepara allo stadio successivo, questo è quello che visualizza, per sentirsi al sicuro. Come nei sogni, dove visiti luoghi senza però muoverti.»

«E qual è questo stadio successivo?»

«Oh, Inferno, Paradiso, nuova vita, vuoto infinito, chi lo sa. Io sono qui solo da poco.»

«E quelli che sono andati negli altri vagoni?»

«Non farti domande a cui non puoi rispondere. Osserva il panorama.»

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John si voltò verso il vetro. Ora sfrecciavano sull'acqua, e il bagliore del sole si riverberava sulle onde senza infastidirlo. Non c'era il mare, nel mid-east. Ma ormai non era più nel mid-east. Si rilassò seguendo il profilo dell'orizzonte. Ogni tanto le porte si aprivano e saliva qualcuno di nuovo che, come lui, si disperava e ribellava. Dapprima John lasciò che gli altri passeggeri gli spiegassero la situazione, poi cominciò a farlo in prima persona, confortando e rassicurando. A un certo punto fu lui a essere chiamato dal capostazione.

Era giunto il suo momento? Sarebbe andato in Paradiso?

Oltrepassò la porta del vagone e si trovò, con una punta di delusione, in un convoglio uguale al primo. Cercò Frankie ma non la vide. I passeggeri lì erano più giovani, sulla ventina. Si sedette in un posto vuoto tra tre ragazzi che parlavano di musica. Da giovane aveva suonato e ricordò la band e quegli amici che non aveva più chiamato. Si unì al discorso e nel parlare sentii di avere una voce diversa, più fresca. Si guardò le mani: non aveva più la fede e la pelle era liscia. Al polso portava il braccialetto di cuoio che gli aveva regalato Emily, la sua prima fidanzata. Che ne era stato di lei? Aveva vissuto a duecento all'ora, macinando nel passaggio chi era rimasto indietro: gli amici d'infanzia, gli amici del liceo, i primi amori. Ma mentre ripensava a loro e a quel che aveva perso, si ritrovò sereno.

Il tempo scorreva diversamente in quel luogo, e quando il capotreno si presentò nuovamente alla porta, John si sorprese di sentire ancora il suo nome. Salutò le persone con cui aveva parlato, che si erano allargate a tutto il convoglio, e si diresse verso quello successivo. Quando la porta si chiuse alle sue spalle, si trovò in un mare multiforme di bambini. Vide Frankie, appesa al portabagagli, che dondolava con delle scarpette rosse.

La raggiunse chiamandola e si aggrappò insieme a lei.

«John! Ti ricordi il tuo papà?»

«Il mio papà?»

«Sì, il tuo papà! Il mio mi portava sempre ai giochi come questo.»

Suo padre era stato un imprenditore metalmeccanico inflessibile che non era mai riuscito ad aprire una comunicazione con lui. Ma al ripensarci non riuscì a non visualizzare che i momenti in cui si era sentito amato. C'erano stati, sì, sepolti sotto anni di risentimento e abitudine: lo sguardo d'orgoglio alla sua laurea, le prime guide insieme. O quando gli aveva sbucciato la frutta perché lui non ne aveva voglia o lo aveva portato in braccio dalla macchina al letto perché si era addormentato. Si scoprì amarlo, anche negli errori. Dopotutto, era stata la sua prima vita, anche per lui.

Si unì ai giochi di Frankie e degli altri bambini, giochi incredibili e sempre nuovi, e si ammassò con loro alle gambe del capotreno quando si palesò per chiamarli. Uscirono nel convoglio successivo gattonando disordinatamente, come creature che conoscono da poco la vita. Sentì l'odore della sua mamma e il sapore delle cose di plastica che si metteva sempre in bocca.

A quello stadio non sono più ricordi, ma sensazioni, colori, impressioni, forme e materiali. Sono voci rassicuranti e ninnananne sussurrate, sono pigiami morbidi e mani calde. Lo avvolgono ora, come panni umidi e pesanti che lo amano e lo proteggono. Si rannicchia su se stesso, stretto in quel calore senza forma, perdendo la propria. Si chiude sempre di più, collidendo in un punto, un punto a densità infinita che comprende tutto ciò che era, tutto ciò che sarà, tutto ciò che è reale e tutto ciò che è eterno. È fiore e terra, è tuono e silenzio, è specchio e uragano, è orso e faro, è arte e rivoluzione, è colore e luce. È inizio e fine. È spazio e tempo.

È la consapevolezza al di là di essi.

È.

Poi diviene... qualcosa. Da punto si duplica, si moltiplica. Intorno, un battito ritmico che non si ferma mai. Calore, protezione. Poi luce, immensa, artificiale. Piange mentre chiamano il suo nome, mentre si passano il suo piccolo corpo neonato, mentre, dimentico di tutto tranne che dell'infinita sensazione della vita, vive ancora.

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