Chantal Lengua

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Della pioggia sapevo che profumava di foresta. Anche lì, nella stazione ferroviaria di Lindsen, tra il ferro battuto e la polvere caliginosa, mi ritrovai a respirare a pieni polmoni l'odore bagnato di ciò che veniva da lontano e non sarebbe tornato.

Un collega mi salutò salendo su un treno, il fischietto tra le labbra. I passeggeri obbedirono al fischio come pecore di gregge; a volte mi piaceva, il nostro lavoro, a volte no. Ci obbligava a stare tanto fuori casa, così mi perdevo la crescita di Thomas e quegli anni che come la pioggia passano sempre e non si ripetono mai uguali. Non era facile, essere una madre single; Thomas non aveva un padre, o meglio, lo aveva avuto, prima che abbandonasse entrambi quattro anni prima, il 12 dicembre 1958.

Un treno merci transitò lentamente, come un bue che arava campi di sole. Trasportava carbone, o acciaio, e grosse cisterne. Lo seguii con lo sguardo, quasi attratta: mancava della cacofonia dei vagoni passeggeri su cui lavoravo, delle urla e dei pianti umani, e manteneva un'innata imperturbabilità che lo rendeva quasi sacrale.

Un'ombra saltò giù dall'ultima carrozza, atterrando in piedi sui binari.

«Ehi! Non può stare lì!». Mi misi a correre ma la figura era già scomparsa. Che avesse attraversato i binari, finendo nei prati? Ma era buio, troppo.

Lo rividi pochi metri più avanti, di spalle, sulla mia stessa banchina. Vestiva un abito elegante, rosso scuro.

«Ehi, lei!».

Gli afferrai un braccio. Si voltò. Aveva un viso glabro, tagliente, dal naso forte e le labbra sottili. E gli occhi... Dio, mio. Erano gialli, acidi, con una pupilla verticale.

«Mary Lockwood. Sai chi sono?».

La sua voce mi rimbombò nella cassa toracica, le estremità del mio corpo si fecero fredde.

Sì, lo sapevo. Era l'uomo nero che le madri usavano per mettere a letto prima i figli, la figura demoniaca che stipulava un patto svantaggioso, che offriva un premio sadico, che metteva alla prova le anime mortali. Il nostro folklore lo chiamava trickster. Era come il vampiro transilvano, il leprecauno irlandese. Non esisteva, ma lo si temeva. E ora era davanti a me, reale.

«Mary Lockwood, hai ventiquattr'ore per uccidere».

Dalla tasca interna della giacca estrasse una carta, porgendomela tra le dita. Sembravano umane, ma come se una bestia si fosse sforzata di renderle tali: qualcosa, nella lunghezza, nella pelle, nel colore, era profondamente sbagliato. Tenevano strette una carta da gioco, un jack di picche, che al posto del viso del fante recava il viso di un uomo. Sotto, la scritta "George Graham", in stampatello, rosso scuro, con le lettere staccate e tremolanti come se a scriverle fossero stati un bambino o uno schizofrenico.

«Non posso», dissi con un filo di voce. «Non so neanche chi sia».

«Thomas Lockwood scomparirà».

«Non puoi, non... Mio figlio. Non gli farai del male, per favore».

Ma in quel brevissimo istante che Dio ci concede per chiudere gli occhi dagli orrori del mondo, in quel battito di ciglia, il trickster scomparve, e le mie dita si ritrovarono strette sulla carta con il volto dell'uomo che avrei dovuto uccidere.

 

Scomparirà, quella testina di capelli rossi che cullavo tra le braccia, scomparirà. Che morisse, venisse rapito, svanisse nelle tenebre come era svanito lui, non mi era dato sapere. Per impedirlo, dovevo uccidere un uomo.

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Delle ventiquattr'ore ne erano passate già otto, nel lettino dove mi ero infilata per stringere mio figlio con furia smaniosa, come se mi fosse stato già portato via. Otto ore a sentire e ricordare il profumo dei suoi capelli, otto ore senza potermi concedere il lusso del sonno, otto ore paralizzata dal terrore dell'accordo che non avevo voluto stringere ma che ormai mi si era appiccicato addosso come un sudario bagnato.

Passai la mattinata in biblioteca a cercare informazioni sui trickster. Thomas, accanto a me, leggeva favole per bambini, contento di aver saltato un giorno di scuola. Io accumulavo volumi su volumi, inutili: solo amuleti per scacciarli, blandi rimedi, erbe. Ma una sola frase era ben chiara: un trickster non mente, un trickster non tradisce. Mi rimanevano poche ore per trovare George Graham.

 

Lasciato Thomas a mia madre, partii con la sola informazione di cui disponevo: il cappello da poliziotto raffigurato sulla carta, al posto del copricapo da fante. Lindsen era una cittadina piccola, e un passaparola discreto mi portò alle nove di sera davanti alla centrale di polizia, a seguire con gli occhi la mia vittima. George Graham era un uomo grosso, ma non grasso, che rideva forte. Si diresse verso un pub con tre colleghi. Lo seguii. Nella borsa tenevo un coltello da cucina, sulla tavola due bicchierini di rum. Fissavo la sua nuca tanto che avrei potuto perforarla. Sarebbe stato più facile, forse. Mancava solo un'ora alla scadenza. Ero sempre stata una persona in anticipo, ma oggi facevo del ritardo l'ossigeno che respiravo.

George Graham si alzò in piedi, sistemò la sedia sotto il tavolo e salutò i colleghi. Stava rincasando. Lo avrei fatto lì, lo avrei accoltellato alle spalle come i codardi. Ma Graham non uscì dal pub: girò e puntò verso di me. Si sedette al mio tavolo, sorridendo.

«Peter e John mi hanno detto che non smettevi di guardarmi. Ci conosciamo?».

Boccheggiai senz'aria. Provai ad articolare una risposta, una qualunque, ma successe il peggio. Il mio sguardo si focalizzò sui particolari di quell'uomo come se li ingrandisse dentro una bolla. Gli occhi scuri, dalle palpebre doppie. La fossetta sul mento. Il naso rosso per l'alcol. Il sorriso grande e cristallino. I baffi folti sul labbro superiore. Le mani pulite.

Mi alzai di scatto e aspettai lo scadere delle ventiquattr'ore seduta dietro un faggio, sotto la pioggia, piangendo la morte, il rapimento o la scomparsa che non ero riuscita a evitare.

 

E avvenne. Perché un trickster non mente mai. Avvenne tre mesi dopo, quando andai a prendere Thomas a scuola e la maestra mi disse che era passata a prenderlo la zia.

Thomas non aveva una zia.

Era come se fossi pronta. Come se avessi aspettato tutto quel tempo con la consapevolezza che quel giorno sarebbe arrivato, e ora che era arrivato, mi sentissi quasi sollevata. Fu una sensazione impercettibile, ma stabile. Poi fu solo disperazione. La mobilitazione ci fu, subito, di tutta Lindsen. La maestra descrisse una donna castana con un paio di occhiali da sole a farfalla, e fu quella che cercammo. Ma era stato rapito in pieno giorno, e i bambini rapiti in pieno giorno sono vittime di pianificazioni accurate. A sera, poteva già trovarsi in Francia. Il giorno dopo, in Belgio.

I colleghi capo treno, macchinisti, operai, controllavano la viabilità ferroviaria. I poliziotti battevano la terra come a seminarla. Io e mia madre appendevamo manifesti e distribuivamo volantini. A sera mi addormentavo sul suo letto, stringendo il suo cuscino. La carta da gioco del trickster era tornata normale: un fante di picche senza nome, come tanti prima di lui.

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Iniziai a odiare Graham. Se fosse morto, se non fosse venuto al mio tavolo, il mio piccolo sarebbe stato ancora con me. Perché, poi, il trickster aveva scelto proprio lui? Doveva nascondere qualcosa di sporco. Feriva i detenuti, rapiva gli orfani, picchiava le donne? Mentre lui e la sua squadra cercavano mio figlio, io cercavo il suo marcio. Ma non lo trovai. Era, a detta di tutti, il buono per antonomasia. Questo non mi impedì di odiarlo.

Dopo un mese, tornai al binario maledetto, il numero 11. I vestiti mi si gonfiavano addosso, i capelli mulinavano come tirati da spettri. Raccolsi le pietre tra i binari e le scagliai nel vento, maledicendo la bestia, il rettile. Mi licenziarono: un capo treno doveva mantenere decoro istituzionale anche fuori servizio, anche di notte, anche con un bambino scomparso. Trascorsi il tempo successivo sul divano della cucina, le dita annodate al cavo a spirale del telefono, in attesa di una chiamata che non arrivava mai.

Arrivò lui, però, George Graham, in veste di poliziotto. Si tolse il berretto sull’uscio di casa e mi porse una torta. L’aveva fatta sua sorella. Aveva pensato a me, disse. Ma io non ero pronta ad accettare la generosità dell’uomo che avevo provato a uccidere.

«Grazie, ma sono allergica alle mele».

«È alle pere».

Seduti al tavolo della cucina, Graham si guardava intorno, forse giudicando il disordine in cui deambulava quella madre senza figlio, quel cuore senza arteria, che apparecchiava con stanchezza. Mi disse alcune parole di conforto, mi aggiornò sul lavoro dei poliziotti, anche se non era lui a capo delle indagini, mi parlò della sua famiglia in Irlanda e del proposito di raggiungerla a Natale. Ogni informazione mi scivolava addosso come pioggia su vetro, e lasciai che parlasse senza interromperlo. In realtà, non parlai neanche quando fu il mio turno. La torta alle pere era buona, però. A Thomas piacevano le pere. Questo, sì, glielo dissi.

George uscì nella nebbia salutandomi con un cenno. Contrariamente a quanto mi aspettassi, quando tornai in cucina mi sentii più pesante, come se nella sua presenza avessi trovato un soffio di pace sottratto alla morsa della disperazione. Quando, poco dopo, sentii bussare e lo rividi, mi ritrovai a sorridere per la prima volta da mesi. Si scusò, George, si scusò per quella volta al pub in cui si era seduto davanti a me. Era stata una mossa impulsiva, e lui aveva alzato un po’ troppo il gomito per rivolgersi così a una donna rispettabile come me. Rividi il brillio della lama nella mia borsa ed ebbi l’impulso di piangere, ma lo trattenni, scoppiando solo quando ripiegai nella camera di Thomas, ancora una volta sola.

 

Mia madre mi presentò un dottore, e il dottore mi presentò un antidepressivo triciclico. Nessuno dei due servì a riottenere mio figlio. Il mio palliativo rimase il binario 11, con i suoi treni, i suoi passeggeri e le sue decorazioni di Natale. Ma da dove veniva il trickster le stagioni non esistevano. Il tempo non esisteva. Era una dimensione di tenebra, e l’unico modo per sopravvivere in quell’infinito nulla aspaziale era venire nella nostra dimensione e torturarci con giochetti e contratti.

Mi infilai una mano nel tascone e raccolsi il fante di picche. Immaginai di accartocciarlo, tagliuzzarlo, sgretolare la sua cellulosa in ogni modo possibile, ma qualcosa dentro di me mi impedì di farlo. Quella fu una delle tante sere sferzata dal freddo e dal buio. Nei pomeriggi, invece, si accendeva qualcosa: sempre più spesso, Graham veniva a farmi visita. Ogni tanto portava dei dolci, ogni tanto si sedeva in cucina e basta. Dapprima lo accolsi per dovere, poi la sua visita fu piacevole, e i silenzi che lui era bravo a colmare si fecero via via sempre più sporadici. Si cominciava sempre parlando di Thomas, e si finiva sempre parlando di Thomas, ma in mezzo viveva lo spazio di una conversazione tra adulti, con le loro fragilità e le loro vite, a volte simili, a volte diverse. Mi dispiacque quando, alla Vigilia di Natale, raggiunse la famiglia in Irlanda. Ma non passò che una settimana quando, una notte, la casa si sconquassò per i pugni disperati di qualcuno alla porta. Nevicava. Un vento forte spazzava i suoni della città sostituendoli con un ululato ultraterreno. Scesi le scale stringendomi la vestaglia e la bora mi sferzò il viso quando spalancai la porta: era lui, tornato prima del previsto. Che succedeva? Era ferito?

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Una voce infantile mi fece crollare in ginocchio, e quella parola che avevo tanto sperato di sentire in quei mesi infiniti – mamma – mi riempì le orecchie con il suo scampanellio. Un fagotto imbottito di pelliccia mi si gettò addosso, facendomi perdere l’equilibrio, ormai fragile di antidepressivi e di ossa magre. Lo chiamai con il suo nome così tante volte che parvi intonare una litania di Chiesa, e gli passai le mani nei capelli rossi quasi da fargli male. Alzai lo sguardo e tra le lacrime vidi che anche George piangeva, tentando di non farsi vedere. Lo invitai ad abbassarsi, e strinse entrambi fino a farci sentire caldo anche l’inverno.

 

Ricevette una medaglia, George. La sua storia pareva incredibile a tutti tranne che a me, che ne decifravo l’arcano a ogni parola che mi raccontava. Era tutto voluto dal trickster: uccidere un uomo, e perdere un figlio, o risparmiargli la vita, e ritrovarlo. Ma la coincidenza, agli occhi degli altri, rimaneva inspiegabile: mentre spalava la neve dal vialetto della casa irlandese, George aveva visto Thomas giocare nel giardino della vicina, che una volta accortasi della fuga, l’aveva riacciuffato. Ora la donna si trovava nel carcere di Belfast, in attesa dell’estradizione, e il piccolo dormiva al sicuro nella sua cameretta.

Incredulo, il commissario aveva pensato di indiziarlo come complice pentito, ma dopo l’alibi verificato e la confessione della rapitrice, le accuse erano cadute, lasciando spazio ai soli elogi: George Graham era un eroe, venne detto. George Graham era l’unico che potesse ritrovarlo, venne detto.

Mi chiesi che cosa sarebbe successo, se lo avessi ucciso, quella notte lontana. Thomas sarebbe stato ugualmente rapito? Oppure no? Le parole del trickster erano state sibilline: “Thomas Lockwood scomparirà”. In effetti, non avevano presupposto nessun rapporto di causa ed effetto, nessun “se non ucciderai l’uomo, tuo figlio scomparirà”.

No, ora me ne rendevo conto. Il bivio morale davanti a cui mi aveva messo il trickster era semplice: se avessi ceduto alla paura, al male, e avessi ucciso George Graham, mi sarei macchiata di sangue e avrei perso l’unica opportunità di riottenere mio figlio rapito. Ma se, nonostante il comando di uccidere e la velata minaccia, avessi fatto la scelta giusta, perseguendo la luce, sarei stata ricompensata lasciando inavvertitamente in vita l’unica persona che avrebbe potuto ritrovarlo.

Un trickster non mente, un trickster non tradisce, dicevano i volumi in biblioteca. Un trickster rivela sempre la tua vera natura.

 

A distanza di un anno da quel fatidico incontro al binario 11, uscii di casa socchiudendo la porta. Nel letto matrimoniale al primo piano, George dormiva dalla sua parte di letto; poche ore prima, Thomas si era arrampicato sulle coperte e si era sdraiato sul suo braccio, lungo come lui.

Attraversai la città diretta verso la stazione. Mi sedetti sulla panchina di ferro a osservare le ombre inseguire loro stesse. Come l’anno prima, fu tra il battito delle ciglia che lui comparve.

Sedeva alla mia destra, le gambe accavallate, il vestito, ora lo vedevo distintamente, in velluto rosso granata. Senza dire nulla, estrasse un mazzo di carte e lo aprì a ventaglio sulla scala reale di picche: donna, re, asso. Continuava a guardare davanti a sé, immobile, neanche per quel movimento respiratorio che caratterizza gli umani, che dondolano sempre, in avanti e indietro, in su e in giù, e più sono vecchi più si accentua.

Tirai fuori il fante che avevo conservato per un anno e mi allungai verso di lui, cautamente, per inserirlo tra il dieci e la donna. Lui chiuse il mazzo con uno scatto fluido e cominciò a mischiarle e riaprirle a ventaglio, ma ogni volta che le apriva, la scala rimaneva sempre uguale, e le carte mantenevano sempre lo stesso ordine. Fante, donna, re. Fante, donna, re. Per un istante, mi sembrò che dei volti reali si sovrapponessero a quelli delle figure: un bambino dai capelli rossi, una donna dal viso scavato e un uomo dalla faccia bonaria e un folto paio di baffi. Ma quando aguzzai lo sguardo, le carte erano scomparse, e il trickster con loro.

Quei visi erano felici, ma io lo sapevo già.

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