Egitto, età di Amenhotep III
Coccodrillo, leone, ippopotamo.
Il bambino aveva imparato presto i nomi dei tre predatori in modo da tenerli sempre a mente. Ma un bambino non pensa a nulla mentre corre.
Rapido, il guizzo roseo delle piante dei piedi solleva sabbia e polvere, e lui ride, ride perché sta correndo e non c'è nulla di cui essere più felici al mondo, con il canneto di papiri che si uniforma in un solo fascio verde e il Nilo che scintilla di polvere d'oro.
Ma la felicità è un peso lieve. La sofferenza, grave.
Oltre l'ansa del fiume, una delle tre bestie: coccodrillo, leone, ippopotamo. Il bambino se ne accorge quando è troppo tardi, e nello sterzare per tornare indietro, cade battendo la testa. Il sole si fa freddo, il Nilo non scintilla più.
Scintilla qualcos'altro, quando riapre gli occhi. Anzi, scintilla tutto: una grande stanza dorata e ricca di decorazioni, intarsi e dipinti raffiguranti le loro divinità. È felice, perché crede di essere stato salvato dal faraone e di trovarsi nel suo palazzo. Si alza in piedi e si sente fresco e leggero, come se non avesse mai corso, come se non avesse mai battuto la testa.
Poi li vede. Sono sempre stati lì.
Lui, Anubis, il dio dell'oltretomba, dal duro muso di sciacallo che scema diventando carne, corpo umano vestito di lino e impreziosito d'oro, e Ammit, nell'altro angolo, fiera commistione tra le tre bestie assassine da cui avrebbe dovuto guardarsi: un lungo e dentato muso da coccodrillo suturato a un corpo leonino che termina in massicce zampe da ippopotamo. Tra di loro si erge una bilancia d'oro e avorio.
Il bambino vuole scoppiare a piangere ma si accorge che non riesce a farlo.
«Telamun.» tuona Anubis, chiamandolo. Batte il suo bastone dorato a terra facendo rimbombare la sala senza porte né finestre. «La tua vita sulla Terra è cessata, sei qui per essere giudicato.»
Il bambino si piega sulle ginocchia, facendosi piccolo. Non potrà piangere, ma può sempre provare a scomparire. Forse, se chiude gli occhi e stringe i pugni con abbastanza forza, si risveglierà tra le braccia della mamma; gli manca tanto.
Anubis guarda Ammit, che gli fa un cenno con il grosso muso da rettile in direzione del bambino. Il dio sospira, appoggia il bastone alla parete e piega un grosso ginocchio a terra, chinandosi alla sua altezza.
«Non sei solo.» gli dice. Si volta verso Ammit, lui quelle cose non le sa fare, non sa consolare i bambini. Lui è il dio dell'aldilà, il traghettatore di anime. Ma l'altra lo saetta con un'occhiata irremovibile e sposta la zampa leonina come a dire Vai, muoviti.
«Non sei solo.» ricomincia allora. «Negli eterni Campi dei Giunchi ci sono i tuoi nonni, e i nonni dei tuoi nonni. Ti stanno aspettando.»
«E la mia mamma?»
«La tua mamma ti raggiungerà, ma prima andrai tu, così le preparerai un bel…» si gira verso Ammit, che mima qualcosa intorno al collo. «…una bella collana di fiori.»
Il bambino solleva lo sguardo e d'un tratto quel viso da sciacallo nero, con lunghi canini e labbra invisibili, non gli sembra più così spaventoso. Ancora seduto, alza le braccia per farsi raccogliere. Anubis arretra impercettibilmente, ma già sente lo sguardo della compagna farsi infuocato, così lo solleva tra le grosse braccia umane e lo porta davanti alla bilancia dorata.